Le accuse di speculazione finanziaria rivolte a Trump dai democratici durante la crisi delle borse causata dai provvedimenti sui dazi non sono false ma sono, sul piano politico, soprattutto superficiali. Se ne comprende l’obiettivo, cercare di accumulare materiale per processare il presidente degli Stati uniti per insider trading, ma non fanno intravedere capacità di analisi.
Quello che sta accadendo è qualcosa di molto più profondo del semplice insider trading, l’abuso di informazioni riservate: l’amministrazione Trump ha incorporato, tra le proprie funzioni, quella della modalità hedge fund mandando in corto circuito la consolidata visione politica delle competenze governamentali. E questo non solo perché la Trump corp. vive del nesso tra settore immobiliare e finanziario ma soprattutto perché l’amministrazione Trump, oltre alle competenze della sua corporation, assembla CEO di hedge fund ai vertici apicali del tesoro e al commercio assieme alle loro sterminate filiere di relazioni e di interessi.
Per cui di fronte alle gravi criticità del debito americano l’amministrazione Trump si comporta da hedge fund consapevole di avere, sui mercati, una posizione non onnipotente ma strategica (il governo federale) adottando così una tattica aggressiva per predare ricchezza e cambiare le gerarchie del mercato. Ed ecco i dazi per come li abbiamo conosciuti. Poi accade quello che magari la politica non si aspetta ma che, invece, i gestori dei fondi speculativi conoscono bene: la strategia aggressiva produce effetti collaterali anche decisamente controproducenti per cui bisogna sapersi far trovare pronti. Il dissenso di molti finanziatori della campagna elettorale di Trump, gli evidenti attacchi finanziari dalla Cina, e soprattutto dal Giappone fanno parte di questi, pericolosi, effetti collaterali da saper affrontare.
Ma in questo caso l’effetto collaterale più grosso di tutti è il terremoto che si è prodotto nel mercato dei titoli del Tesoro statunitense (U.S. Treasury) che rappresenta la pietra angolare del sistema finanziario globale. Il mercato dei Treasury è riconosciuto come il mercato dei titoli di Stato più grande e liquido al mondo, fungendo da benchmark fondamentale per la determinazione dei prezzi di un’ampia gamma di attività finanziarie a livello globale. La sua importanza trascende persino la mera dimensione; è essenziale per il finanziamento del debito pubblico statunitense, costituisce il canale primario per la trasmissione della politica monetaria della Federal Reserve all’economia reale e, data la sua percezione come asset “risk-free”, gioca un ruolo critico nel mantenimento della stabilità finanziaria globale.
Bene, in questi giorni il mercato dei Treasury è stato messo in grave crisi dal collasso della riproducibilità di un’operazione finanziaria al suo interno nota come “basis trade” sui titoli di Stato statunitensi (T-Bond). Si tratta di una operazione finanziaria comune e diffusa che di solito ha funzioni regolative sul mercato e che coinvolge hedge fund che guadagnano sulle differenze di prezzo tra i futures sui T-Bond e il T-Bond stesso. Le conseguenze di questo collasso sono un fenomeno noto almeno dalla crisi del Covid del 2020, e da quella conosciuta come “crisi dei Repo” dell’anno precedente: dollaro e valore dei T-Bond scendono precipitosamente, il debito federale si allarga velocemente, la speculazione morde istantaneamente, grazie anche a tecnologie di accelerazione dello short selling in caso di crisi, Wall Street cade e si avvicina lo spettro della crisi sistemica.
Cosa fa l’amministrazione Trump mentre il canale primario per la trasmissione della politica monetaria della Federal Reserve è in crisi e con lui il basis trade che muta pericolosamente dal ruolo di strumento di stabilizzazione del mercato? Semplicemente usa la propria posizione strategica (sul piano dell’informazione e dei provvedimenti normativi) ma non da governo, ma da bravo hedge fund. Quindi, per qualche giorno, dal delirio delle borse del 2 aprile a dazi annunciati, non interviene favorendo le posizioni speculative che hanno guadagnato, e non poco, sul crollo dei Treasury e, solo una settimana dopo, rilascia dichiarazioni e provvedimenti che creano una tregua sui mercati favoriscono la speculazione degli attori meglio posizionati, e a lui alleati, in grado di sfruttare il rialzo di borsa, il più grande dalla fine della seconda guerra mondiale.
Aggredire il mercato, con la mossa spettacolo dei dazi, e posizionarsi secondo gli effetti dell’aggressione al mercato, in entrambi i casi, è una mossa da hedge fund. Solo che l’amministrazione Trump è un governo che, come tale, deve anche attivare tattiche governamentali, di stabilizzazione e di perseguimento di obiettivi strategici. Invece l’amministrazione Trump affronta la crisi del debito estero americano come se fosse un hedge fund lavorando sull’aggressione al mercato e sull’adattamento al caos creato da questa aggressione. E un hedge fund non deve risolvere la questione del debito quanto sopravvivere e guadagnare dai continui sussulti che questa provoca. Questa ibridazione tra governamentalità e comportamenti da hedge fund sconvolge la concezione della governamentalità per come l’abbiamo conosciuta: elemento di stabilizzazione della società secondo politiche, norme, codici, pratiche. Governamentalità è un concetto che indica le configurazioni di rapporti tra governanti e governati, le modalità di gestione delle popolazioni. Si tratta di una tecnologia di governo che si realizza attraverso istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche. I dazi fanno parte di questa arte di tecnologia di governo nel momento in cui devono regolare circolazione e produzione di ricchezza. Lo stato che assorbe le funzioni di hedge fund metabolizza la dinamica potente di creazione e distruzione di ricchezza tramite i mercati finanziari ma rende marginali le pratiche governamentali che finiscono per essere solo dei processi che servono per riprodurre legittimazione formale, di uno stato sempre più svuotato di senso e percepito anomicamente.
Del resto aggredire i mercati finanziari per ridurre strutturalmente il problema del debito genera una serie di conflitti – commerciali, finanziari, sinergie con i conflitti sul campo – che sono coestensivi con la guerra finanziaria permanente nella quale vivono gli hedge fund ma sono, alla lunga, letali per le pratiche della governamentalità. Si tratta di problemi nuovi, indubitabilmente, ma anche di vestiti nuovi per vecchi problemi. Lo stato come hedge fund, alla nascita dello stato moderno, lo troviamo subito allo scoppio della bolla della South Sea (1720) compagnia il cui valore era stato gonfiato dalla corona britannica per trovare i fondi per finanziare i costi del conflitto anglo-scozzese. Dopo essersi riprodotta in molte forme, la funzione hedge fund intrecciata nella governamentalità ritorna, tecnologicamente innervata, con rinnovata potenza distruttrice. La dimensione del debito pubblico degli Stati Uniti è garanzia che questa potenza distruttrice, nonostante qualche pausa, è destinata a produrre a lungo effetti sulla morfologia delle nostre società.
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