Lunedì scorso, la Mandela Hall di Addis Abeba, spazio dedicato alla lotta per la libertà e la dignità umana, ha ospitato un acceso braccio di ferro diplomatico.
L’ambasciatore israeliano in Etiopia, Avraham Neguise, è stato allontanato da un incontro dell’Unione africana dedicato al genocidio ruandese. La sua espulsione, avvenuta nelle stanze che onorano la memoria di ha dedicato la sua vita alla ribellione al dominio, ha accentuato il clima di tensione, riflettendo il malcontento di molte delegazioni africane, che hanno interpretato la sua presenza come una provocazione inopportuna.
La notizia, confermata da fonti dell’Ua, rappresenta una frattura diplomatica dalle pesanti ricadute. L’atmosfera durante l’episodio, descritta dai diplomatici presenti come “tesa e quasi irreale”, ha imposto l’immediata sospensione dei lavori finché l’ambasciatore Neguise non è stato scortato fuori dalla sala.
Non è passato inosservato il disappunto espresso dagli stessi vertici dell’Ua, che hanno avviato un’indagine per accertare come sia stato possibile estendere l’invito e, soprattutto, per comprendere i canali che ancora garantiscono a Israele spazi di accesso in contesti dove ormai prevalgono le voci che ne chiedono l’esclusione.
La carica simbolica dell’episodio è innegabile, poiché una conferenza dedicata al genocidio ruandese del 1994, un massacro in cui, in soli cento giorni, circa 800.000 persone, in maggioranza Tutsi, furono brutalmente uccise da estremisti Hutu, è stata interrotta dalla presenza del rappresentante di uno Stato accusato da molti in Africa di perpetrare crimini classificati come genocidio contro i civili palestinesi.
Le contestazioni a Israele
In Ruanda, prima del genocidio, la popolazione era composta principalmente da Hutu, la maggioranza, e Tutsi, una minoranza con una storia di potere. Le tensioni, aggravate da politiche coloniali e post-indipendenza, culminarono con l’abbattimento dell’aereo del presidente Habyarimana, scatenando l’orrore.
Le Interahamwe, milizie estremiste Hutu il cui nome significa “coloro che attaccano insieme”, composte da civili radicalizzati armati, furono protagoniste delle uccisioni di Tutsi e Hutu moderati. La tardiva e insufficiente risposta internazionale è stata ampiamente criticata. Questo genocidio rappresenta un trauma indelebile nella coscienza continentale.
L’interruzione di una sua commemorazione per la presenza del rappresentante di uno Stato accusato di analoghi crimini acquista una risonanza drammatica, nella quale la memoria di uno dei più gravi genocidi del XX secolo sembra aver rifiutato la coesistenza con chi è percepito come parte di un’altra tragedia in corso, evocando spettri di violenza e impunità.
Per Israele, episodi di simile contestazione non sono una novità. Già nel febbraio 2023, una delegazione israeliana fu allontanata durante la cerimonia inaugurale del vertice annuale dell’Unione africana. In quell’occasione, Tel Aviv attribuì la responsabilità dell’accaduto a Sudafrica e Algeria, denunciando un’azione di sabotaggio diplomatico.
La memoria diplomatica è duratura, e la frattura esistente tra Israele e una parte significativa del continente africano affonda le proprie radici in decenni di tensioni, pressioni e dinamiche di alleanze complesse.
Nel 2021, dopo un intenso lobbying diplomatico, Israele ottenne lo status di osservatore presso l’Ua, un traguardo celebrato a Tel Aviv come fondamentale vittoria strategica.
Ma questa parentesi di distensione ebbe vita breve. Appena un anno dopo, di fronte alla crescente opposizione degli Stati membri, l’Unione Africana revocò bruscamente il privilegio. Al centro del contendere rimane, ineludibile, la questione palestinese.
Per il continente africano, la causa palestinese non è semplicemente una disputa geopolitica tra Stati, è diventata una questione identitaria, un riflesso delle lotte anticoloniali che si proietta nelle cancellerie di Kinshasa, nei dibattiti di Dakar e nei palazzi governativi di Algeri.
I parametri dell’Unione africana
Numerosi leader africani percepiscono la persistente occupazione dei territori palestinesi e le operazioni militari a Gaza come una contraddizione insanabile con i principi cardine dell’Unione africana, quali l’autodeterminazione, la dignità e la resistenza all’oppressione. La posizione africana supera la logica dei semplici allineamenti politici, radicandosi profondamente nella storia del continente e nelle sue aspirazioni future.
Anche Hamas ha espresso un giudizio netto, definendo l’espulsione di Neguise “una posizione audace” e sottolineando come essa attesti i valori storici dell’Ua e la sua coerenza nel sostegno alla causa palestinese.
Il movimento ha dichiarato che è oltraggioso che uno Stato che commette un genocidio a Gaza possa avere accesso a un incontro sul genocidio, formulando parole dure e taglienti che denotano una chiara richiesta di cessare la concessione a Israele di piattaforme internazionali per quella che definisce una strategia di insabbiamento.
L’Unione africana, sorta nel 2002 come evoluzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana, mantiene un carattere fortemente selettivo nel suo assetto istituzionale. L’accesso allo status di osservatore per Stati extracontinentali rimane vincolato a parametri rigorosi, tra i quali spicca, caso emblematico, quello della Palestina, riconosciuta come osservatore già dal 1973 e tuttora sostenuta da un consenso trasversale.
La continuità di questo sostegno rievoca non solo le battaglie contro l’apartheid, ma soprattutto la consapevolezza che il potere, per essere legittimo, deve radicarsi in un’etica condivisa.
In tutto ciò, una sfumatura di ambiguità avvolge il concetto stesso di memoria e giustizia. L’evento dedicato al Ruanda, concepito come momento di riflessione collettiva sulle conseguenze dell’indifferenza e della complicità internazionale, ha finito per assumere i tratti di uno spazio di contesa politica. Eppure, in fondo, nessuna deriva semantica, ma l’evoluzione inevitabile di una memoria che, anziché ripiegarsi sul cerimoniale, si fa gesto concreto.
La diplomazia oscilla pericolosamente sul filo della crisi, stretta tra le crude logiche geopolitiche e l’indomita forza degli ideali. In questa coltre di interessi contraddittori, tra omissioni colpevoli e indifferenza verso la tragedia di Gaza, esiste una questione fondamentale che riguarda sia la legittimità di chi parla sia l’urgenza di chi ha disperato bisogno di ascolto.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento