Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

08/04/2025

Il mondo alle prese con la follia USA

Tutti alla guerra in ordine sparso. Lo scontro mondiale aperto sui dazi è ben lontano dall’aver trovato una linea evolutiva chiara. Del resto, le mosse dell’amministrazione Trump tutto sono meno che coerenti e tecnicamente precise (considerare un “dazio” lo squilibrio commerciale o l’Iva è una bestialità, in ambito capitalistico), e quindi anche le possibili risposte da parte delle varie aree economiche del pianeta risentono di un margine di incertezza molto alto.

L’unica risposta fin qui chiara e ferma è quella cinese, che ha a sua volta innalzato una tariffa doganale del 34% su merci e servizi statunitensi, simmetrica a quella comunicata da Trump pochi giorni fa. E per essere più chiari Pechino ha confermato che “non cederà a ricatti” e “darà battaglia fino alla fine”.

Del resto tutti gli analisti concordano nel ritenere che l’unico paese con cui non si aprirà un negoziato, almeno a breve termine, è proprio la Cina, il principale bersaglio del tentativo Usa di “riequilibrare” i rapporti di scambio commerciale. Ma Pechino già da tempo stava correndo ai ripari, immaginando – senza troppo sforzo – quel che sarebbe accaduto con l’arrivo del tycoon alla Casa Bianca.

La tv statale China Central Television ha rivelato che Xi Jinping ha usato l’espressione «rilancio dei consumi interni» con l’idea che l’aumento dei consumi «contribuirà a stimolare il ciclo economico interno della seconda economia più grande al mondo». Per quanto siano cresciuti i salari cinesi, in effetti, c’è ancora margine per aumentare la capacità di spesa dei cittadini; e non tutti possono vantare un mercato interno di 1,4 miliardi di persone da cui è stata eliminata ogni sacca di povertà.

Anche l’India ha una popolazione di eguali dimensioni, ma la “solvibilità” dei consumatori è infinitamente minore.

In più Pechino ha comunicato un ulteriore aumento delle riserve auree in marzo, per il quinto mese consecutivo. In tempi di turbolenza, si rafforzano le difese...

Tutti gli europei sono invece appesi al gancio dell’incertezza, tra la necessità di rispondere agli Usa con dazi più o meno significativi (5 o 10%, non di più) e la paura di farlo, viste le minacce di Trump, ovvero un rilancio mostruoso nel caso Bruxelles prendesse questa decisione.

Che Trump sia capacissimo di fare una cosa del genere, è certo. Lo ha minacciato anche nei confronti della Cina, che però ha ben altre spalle e soprattutto una guida unitaria di alto livello (persino Confindustria ha riconosciuto, giorni fa, che la leadership di Pechino è quella maggiormente responsabile nella gestione degli affari internazionali).

Quindi nelle capitali europee si ragiona sulla possibilità o meno di aprire un negoziato con Washington, pur dovendo registrare che Ursula von der Leyen, per il momento, non è riuscita neppure a stabilire un contatto telefonico con la Casa Bianca, mentre il commissario al commercio, Šefčovič, nella sua missione a Washington, è riuscito a parlare solo con funzionari di secondo livello.

Insomma, “l’Europa” è trattata come un servo fastidioso ed inutilmente lamentoso, cui verrà comunicato a tempo debito cosa deve fare.

Perciò, nel frattempo, a Bruxelles ci si balocca con una lista di prodotti Usa su cui imporre dazi comunque più bassi di quelli subiti, in modo da “distribuire il danno in modo omogeneo tra i 27 paesi membri”. Curioso, e nulla di più, che tutti abbiano il terrore di imporli sul whisky, come se questo fosse davvero il “punto di non ritorno” per una eventuale guerra commerciale con Trump.

I problemi per l’area europea sono però ben altri, e più seri. La produzione industriale tedesca – la prima del Vecchio Continente – è calata dell’1,3% rispetto a gennaio e del 4% su base annua. Il che aggrava una crisi già esplosiva, visto che il dato è di 13 punti più basso rispetto al periodo pre-Covid e di 18 punti rispetto al picco del novembre 2017.

In termini occupazionali il settore industriale di Berlino ha perso nell’ultimo anno 120.000 posti di lavoro, e altrettanti sono attesi per l’anno in corso.

Perciò il neocancelliere, il democristiano molto di destra Friedrich Merz, ha sfoderato un bazooka da 1000 miliardi di euro (500 solo per il riarmo militare), fottendosene sia delle politiche di austerità (che continua a pretendere per i partner nella UE), sia dei vincoli del debito pubblico.

Vero è che la Germania è l’unico paese europeo che può permettersi di aumentare il debito pubblico (attualmente intorno al 60% del Pil, come da parametri di Maastricht), ma uno scarto così enorme tra i margini di manovra per la Germania e quelli per i “partner” non può restare sotto silenzio a lungo.

Persino i cerberi del “rigore”, in quasi tutti i paesi, cominciano ad ammettere che il “patto di stabilità” va ora completamente rivisto, se non radicalmente abolito.

Non c’è più certezza, insomma. Ed è la peggiore delle situazioni possibili, per “i mercati”. Che infatti, dopo un breve tentativo di “rimbalzo”, hanno ripreso a scendere...

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento