La decisione di Donald Trump di imporre dazi molto elevati sui prodotti importati dal resto del mondo costituisce l’ennesima conferma della rovinosa decadenza degli Stati Uniti. In tal modo Trump si prefigge il duplice obiettivo di proteggere il proprio mercato interno, puntando a risanare il deficit della bilancia commerciale, e di ottenere risorse finanziarie aggiuntive.
Ma si possono sollevare parecchi dubbi sulla capacità di tali misure di raggiungere effettivamente tali obiettivi. Le prime reazioni dei mercati rivelano infatti profonde difficoltà da parte di settori fondamentali dell’economia statunitense che fondano le proprie aspettative di profitto sullo sfruttamento del lavoro subordinato povero in vaste aree del Pianeta.
E soprattutto le misure adottate comportano un netto peggioramento delle condizioni di vita dei ceti subalterni statunitensi, quegli stessi che qualche mese fa avevano affidato a Trump i loro sciagurati destini e che presto sperimenteranno sulla propria pelle la fallacia della scelta compiuta.
Tale politica sta determinando una massiccia risposta popolare che è diretta altresì contro lo smantellamento dei servizi pubblici.
Su di un altro piano i dazi provocano l’emergere di inedite convergenze internazionali come quella tra Cina, Corea del Sud e Giappone. Pare quindi che agitandosi scompostamente per evitare il proprio sprofondare nelle sabbie mobili della crisi, la presidenza Trump finisca per accelerarlo, sia sul piano interno che su quello internazionale.
I dazi costituiscono in effetti la chiara dimostrazione del declino inarrestabile della superpotenza statunitense che difficilmente riuscirà in tal modo a ricostituire il proprio potenziale di produzione manifatturiera.
Tale declino è infatti il risultato inevitabile di processi epocali quali il ruolo sempre più importante del parassitario capitale finanziario e la fine della posizione dominante ed egemone degli Stati Uniti sul piano internazionale.
Processi epocali cui Trump tenta di rispondere liquidando paradossalmente il libero scambio che costituisce la veste giuridica ed ideologica più adeguata per la globalizzazione. Non già evidentemente per por fine al capitalismo ma anzi per ribadirne nel modo più brutale la ragione le istanze più profonde, fortemente legate al ruolo predominante degli Stati Uniti, che per quanto detto sta ineluttabilmente finendo.
In questo senso il presidente degli Stati Uniti punta sui residui di asservimento di cui può giovarsi a livello internazionale. L’Italietta di Meloni, Salvini e Tajani, da questo punto di vista è ovviamente in pole position.
Ma in realtà è l’intera Unione Europea, con in testa la Germania di Merz, von Der Leyen e Weber, a ribadire la propri schiavitù nei confronti degli Stati Uniti. Basti pensare che questo geni hanno partorito l’ideona di barattare l’abbassamento dei dazi con l’incremento degli acquisti di armi e gas naturale statunitensi. Ovvero, esattamente l’opposto di quello che andrebbe fatto per avanzare sulla strada obbligata dell’autonomia strategica dell’Italia e dell’Europa.
La risposta dovrebbe invece essere ferma e soprattutto comportare una ridiscussione a fondo della collocazione internazionale dell’Unione a partire dalla pace immediata con la Russia e dallo sviluppo di intensi e proficui rapporti di scambio e cooperazione con la stessa Russia, con la Cina e con gli altri Paesi che fanno parte dei BRICS+.
Al contempo occorre trarre spunto da questa indubbia e importante novità negativa per superare i vincoli di bilancio posti alla spesa pubblica per avviare l’indispensabile programma di investimenti volti a bilanciare l’impatto dei dazi trumpiani sull’economia e l’occupazione.
Guerra, riarmo e dazi vanno quindi assunti come elementi di discussione delle scelte di fondo dell’Unione Europea, fino a delinearne una totale modifica delle finalità e dei metodi ovvero una spaccatura su base geopolitica, col recupero della propria vocazione mediterranea da parte degli Stati che vi si affacciano, tra i quali ovviamente l’Italia.
Più in generale la mossa alquanto azzardata di Trump offre all’Europa un’occasione imperdibile per sganciarsi dall’alleanza occidentale e colpire le multinazionali statunitensi, contrastandone il ruolo dominante nei settori strategici dell’energia, degli armamenti, delle telecomunicazioni e molti altri.
Altri stimoli positivi derivanti dalla decisione di Trump riguardano, per tutta l’Europa come per l’Italia, la necessità di abbandonare il modello export-oriented per fondare uno sviluppo stabile e sostenibile sul mercato interno. Tutto ciò richiede però la liquidazione totale dell’attuale classe dirigente di servi sia italiana che europea.
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