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10/04/2025

Pakistan - Arresti e deportazioni di massa per i migranti afgani

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“Siamo andati via da Islamabad. Ci siamo nascosti e viviamo lontano dalla città. La polizia pakistana potrebbe arrestarci e deportarci in qualunque momento”.

Con queste parole Marghalai, attivista per i diritti delle donne fuggita dall’Afghanistan circa due anni fa, la cui storia è riportata in un articolo pubblicato lo scorso settembre, mi descrive l’attuale situazione in Pakistan per i rifugiati afgani.

Lo scorso gennaio il governo pakistano ha annunciato la terza fase del “Piano di rimpatrio di stranieri illegali”, cominciato nel settembre 2023 e che ha riguardato da allora almeno 844.499 persone, secondo quanto riportato dall’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (IOM).

In Pakistan risiedono almeno 2,5 milioni di afgani. Di questi circa 1,3 milioni di persone sono in possesso di una Prova di Registrazione (PoR), documento frutto di un accordo con l’UNHCR del 2006, e circa 800.000 dispongono di una Carta per i cittadini afgani (ACC), rilasciato in seguito a un accordo con l’IOM del 2017. Questi documenti, però, non offrono alcuna garanzia di rimanere in Pakistan, poiché è lo stesso governo di Islamabad che decide se rinnovarne la validità.

L’ultima fase del piano era stata resa ufficiale a inizio marzo, quando il governo ha fissato al 31 marzo la scadenza per lasciare il paese in maniera volontaria per tutti i detentori di ACC, o per coloro privi di alcun documento. Dal primo di aprile, in corrispondenza della fine del Ramadan, sono cominciati i rimpatri forzati. Per i detentori di PoR, la cui validità è stata rinnovata lo scorso anno fino a giugno 2025, invece la scadenza è fissata per il 30 giugno.

Moniza Kakar, avvocata e attivista, che ha fondato il gruppo Joint Action Committee for Refugees nel 2023, per opporsi al piano di rimpatrio, riporta diverse violazioni dei diritti umani: “molti afghani, anche quelli con documenti validi, sono stati arrestati, molestati dalla polizia e deportati senza alcun processo legale. Le famiglie sono state separate, i bambini sono stati detenuti e intere comunità vivono nella paura di incursioni e allontanamenti forzati”. Secondo i dati pubblicati dall’UNHCR e l’IOM, a partire dal 2023, sarebbero almeno 46.000 i cittadini afgani che sono stati arrestati o detenuti.

La maggior parte dei rifugiati risiede in Pakistan da oltre quarant’anni e qui ha costruito la propria vita, diventando parte integrante della comunità e del tessuto socioeconomico del Paese. I loro figli e nipoti sono nati in Pakistan e non sono mai stati in Afghanistan e non hanno alcun legame nel paese.

Circa mezzo milione, invece sono fuggiti dall’Afghanistan dopo la caduta di Kabul per sfuggire a un regime che impedisce alle donne di studiare, lavorare, esprimersi e vivere appieno i propri diritti. In molti casi si tratta di persone o famiglie che temono per la propria vita: attivisti, giornalisti e persone che hanno lavorato per il governo precedente, che hanno fatto richiesta di asilo in un paese terzo, ma che da tre anni attendono in un limbo di incertezza, angoscia e risposte vaghe. Una condizione peggiorata considerevolmente dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca e lo stop al programma di ammissione dei rifugiati negli Stati Uniti, entrato in vigore il 20 gennaio scorso.

Paksmina (15 anni), che era scappata con la famiglia dopo le torture subite da lei e dai suoi parenti, mi ha scritto: “Tornare in Afghanistan non è un’opzione per noi, perché ci sono minacce reali per le nostre vite. Io stessa sono stata bruciata quando ero solo una bambina. Ora che sono cresciuta, vivo nella paura costante di essere costretta a sposare un talebano. Una paura che mi ha tolto la pace e il sonno”.

Noorullah è un medico afgano di 33 anni. Oggi vive a Islamabad con la moglie e tre figli tra i 5 e i 10 anni. Prima della caduta di Kabul, la moglie era un’avvocata, “una delle migliori del Paese”, mi dice. Per poter rimanere in Pakistan deve rinnovare i visti di ogni membro della famiglia ogni mese, ad un costo che arriva fino a 100.000 rupie pakistane (circa 330 €). Una cifra che Noorullah deve racimolare lavorando presso un negozio di Islamabad con estrema fatica.

Ho raggiunto anche Esin via telefono. Da quando sono iniziate le deportazioni non esce quasi più. Quando ci siamo incontrati la prima volta, frequentava un centro studi dove poteva seguire lezioni di inglese e matematica per compensare la perdita di anni di scuola, ma dal primo di aprile, ha dovuto rinunciarvi: “la polizia effettua controlli a tappeto, entra nei negozi e controlla tutti i presenti. La possibilità di essere fermati e arrestati è altissima”.

Il governo di Islamabad giustifica il piano con la lotta a gruppi terroristici, tra cui gruppi talebani pakistani appartenenti al Tehrik-e Taliban Pakistan (TTP), soprattutto nelle regioni del confine occidentale del Paese, il Khyber Pakhtunkwa e il Balochistan. Il piano è stato accompagnato, infatti, da una campagna denigratoria, denunciata anche da Amnesty International. Nel novembre 2023 l’allora Primo Ministro ad interim Anwaar-ul-Haq Kakar dichiarò: “Una parte significativa di coloro che sono coinvolti in attività criminali e terroristiche sono tra questi immigrati illegali”. Ma molti analisti considerano, in realtà, il piano di rimpatrio un’operazione di pressione nei confronti del governo di Kabul, accusato di offrire rifugio ai gruppi talebani pakistani. D’altra parte “il governo talebano è riluttante a perseguirli poiché li considera parte della Jihad contro le forze occidentali della NATO per oltre 20 anni”, ha spiegato in un’intervista ad Al Jazeera di inizio marzo, Imtiaz Gul, direttore esecutivo del Centro per la Ricerca e Studi Politici, think tank indipendente con sede a Islamabad.

A farne le spese sono le persone, usate come arma politica e private di ogni diritto a una vita dignitosa da entrambe le parti del labile confine tracciato dalla Linea Durand.

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