Dopo il salvataggio delle banche venete, per l’economista siamo giunti ad un sistema che privatizza i profitti e socializza le perdite: “L’intervento dello Stato a favore dei capitali privati, tra l'altro, implica aumenti significativi del debito pubblico”. Così boccia la visione dello Stato come semplice “ancella” del capitale privato e non vede in Italia forze politiche capaci di proporre un'alternativa: “A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi”. Difendere la Costituzione? “Non basta”.
intervista a Emiliano Brancaccio di Giacomo Russo Spena
«Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite». Con una recente intervista in cui dichiarava che alle presidenziali francesi non avrebbe votato «né per la fascista Le Pen né per il liberista Macron» Emiliano Brancaccio aveva diviso il popolo della sinistra. Ora – a partire dal recente provvedimento del governo che in una notte ha stanziato ben 5 miliardi per il salvataggio di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza – l'economista ragiona sulle contraddizioni del nuovo intervento statale in economia, fatto soprattutto di compravendite a favore del capitale privato. Il mondo intorno a noi si trasforma mentre, secondo lui, in Italia la sinistra si attarda in «una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici e ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo». Autore di pubblicazioni di rango internazionale in tema di Europa e lavoro, promotore del “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times, Brancaccio è un marxista rispettato anche dai suoi antagonisti teorici. Un bel po’ di gotha della finanza e della politica italiana è venuto ad ascoltarlo pochi giorni fa a Roma, in un seminario organizzato dalla società Vera e dal Foglio sul ruolo odierno dell’intervento statale, al quale partecipavano anche l’ex banchiere centrale Lorenzo Bini Smaghi, il presidente della Commissione Industria del Senato Massimo Mucchetti e il ministro per la coesione territoriale Claudio De Vincenti.
Professor Brancaccio, nella sua relazione introduttiva al seminario di Roma lei ha fornito dati piuttosto sorprendenti sul ritorno dello Stato negli assetti proprietari del capitale globale...
I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all'inizio di una nuova fase storica.
Quali sono i segni distintivi di questa nuova fase?
Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni. Potremmo dire che in questa fase, più che in passato, lo Stato è “ancella” del capitale privato, nel senso che asseconda i movimenti speculativi dei grandi proprietari, li soccorre quando necessario e ne assorbe le perdite. Questo ruolo dell’apparato pubblico è ormai apertamente riconosciuto ai massimi livelli del capitalismo mondiale, proprio per garantire la ripresa e la stabilizzazione dei profitti dopo la “grande recessione” del 2008.
Quali sono le conseguenze di questi continui soccorsi statali a favore del capitale privato?
Nella grande maggioranza dei casi l’intervento dello Stato a favore dei capitali privati implica aumenti significativi del debito pubblico. In prospettiva si tratterà di capire se tali aumenti saranno fronteggiati tramite nuovi tagli al welfare oppure attraverso una stagione di “repressione finanziaria”, in cui il debito viene ridotto a colpi di controlli sui capitali e crescita dei redditi monetari e dell’inflazione rispetto ai tassi d’interesse. La scelta tra l’una e l’altra opzione sarà un bivio politico decisivo per i prossimi anni.
Gli economisti liberisti la raccontano diversamente: essi continuano a sostenere che lo Stato rappresenta una zavorra per il capitale privato...
Poi però si affrettano a invocare il salvataggio pubblico quando qualche banca privata fallisce, e a ben guardare non si scandalizzano nemmeno quando lo Stato compra a prezzi alti e poi rivende a prezzi bassi qualche spezzone di capitale industriale. Il divario fra le loro teorie e le loro ricette si fa sempre più ampio.
Qualcuno di essi obietterebbe che lo Stato fa bene a soccorrere il capitale nelle fasi di crisi ma non deve restare a lungo nelle compagini proprietarie, dato che l’impresa pubblica è comunque meno efficiente di quella privata. Non trova?
La realtà è diversa. L’impresa pubblica può perseguire obiettivi di carattere sistemico, che sfuggono alla ristretta logica capitalistica del profitto. Inoltre, anche adottando criteri di valutazione puramente capitalistici, l’impresa pubblica si rivela più efficiente di quanto si immagini. Da una recente ricerca dell’OCSE effettuata sulle prime 2000 aziende della classifica mondiale di Forbes, si evince che le imprese a partecipazione statale presentano un rapporto tra utili e ricavi significativamente maggiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. L’Italia non si discosta molto da queste medie internazionali.
Per l’Italia però si riporta sempre il caso del vecchio IRI, da molti considerato un “carrozzone” di sprechi. Che ne pensa?
Bisognerebbe ricordare che al momento della sua privatizzazione molti settori della holding pubblica segnavano ampi attivi, e che nel 1992 le perdite aggregate dell’IRI non si discostavano molto dalle perdite che all’epoca registrava la maggior parte dei gruppi privati italiani. Come vede, sono ancora molti i miti liberisti da sfatare, specialmente in Italia.
In Gran Bretagna il leader laburista Corbyn ha ottenuto un notevole risultato elettorale con un programma basato su un ritorno dell’intervento statale in un’ottica non “ancillare” ma di lungo periodo, che prevede pure la nazionalizzazione delle ferrovie e di altri settori chiave. In Francia Melenchon ha sfiorato il ballottaggio presidenziale su una lunghezza d’onda analoga e altri in Europa si muovono nella stessa direzione. Sembra farsi strada l’idea di un diverso modello di sviluppo, con un ruolo centrale per gli investimenti pubblici strategici e forti richiami alla partecipazione democratica alle decisioni. E’ giunto il tempo di una sinistra che intercetta i cambiamenti del capitalismo e tenta di sfruttarne le contraddizioni?
Tra le macerie del vecchio socialismo filo-liberista qualcosa lentamente si muove. Ma la nuova concezione dell’intervento pubblico che queste forze emergenti propongono richiederebbe cambiamenti macroeconomici imponenti, tra cui una messa in discussione della centralità del mercato azionario e della connessa libertà dei movimenti di capitale. Mi sembrano propositi molto ambiziosi per movimenti politici ancora incerti, fragili, ai primissimi vagiti.
Però questi fenomeni politici emergenti sono anche trainati da una nuova generazione di elettori, costituita da giovani lavoratori e studenti. Mi pare un punto di forza importante.
Questa è una delle novità più promettenti della fase attuale. I giovani elettori che istintivamente muovono verso sinistra non esprimono un mero voto d’opinione. La loro scelta sembra piuttosto la risultante di un profondo mutamento dei rapporti di produzione, fatto di deregolamentazioni e precarietà, che negli ultimi anni ha inasprito le disuguaglianze di classe. Questi giovani sperimentano presto lo sfruttamento, crescono già disillusi e sembrano quindi vaccinati contro le vecchie favole dell’individualismo liberista. Tuttavia, organizzare una tale massa di disincantati intorno a un progetto di progresso e di emancipazione sociale non è un’impresa facile. Nell’attuale deserto politico e culturale, la loro rabbia può sfociare facilmente a destra.
Lei dunque ci spiega che il capitalismo si muove, si trasforma, e apre nuove contraddizioni sociali. Nel resto d’Europa, pur con tanti limiti, alcune forze di sinistra iniziano a cogliere i segni di questo mutamento. E in Italia la sinistra che fa?
In Italia la sinistra sembra immobile. Una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici che ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo. E poi, quando provi ad aprire quelle scatole ti ritrovi in un limbo, un oscuro mondo in cui nulla è chiaro.
Cosa non la convince del dibattito che si è sviluppato in questi giorni alla sinistra del Partito democratico?
Ho sentito esponenti politici di vertice affrettarsi a dichiarare la loro appartenenza alla famiglia liberale e la loro distanza dalle “sirene neo-stataliste” provenienti dalla Gran Bretagna. Ne ho sentiti altri sostenere che le elezioni vanno il più possibile rinviate per evitare che i mercati si “innervosiscano” e lo spread aumenti di nuovo. Ma soprattutto, ho assistito a un maldestro balletto sui temi cruciali del diritto del lavoro, che dovrebbero situarsi al vertice di qualsiasi proposta politica di sinistra e intorno ai quali, invece, prevalgono la confusione e i miopi tatticismi. A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi.
Un punto di discrimine netto però esiste: sulla scia della vittoria referendaria del 4 dicembre, molti esponenti della sinistra invocano la difesa della Costituzione e dei suoi principi di uguaglianza contro i ripetuti tentativi di rottamarla.
Una difesa che ovviamente condivido, ma che ho sempre considerato insufficiente. Il modo migliore per tutelare i principi costituzionali della “Repubblica fondata sul lavoro” consiste nel delineare una proposta di politica economica coerente con essi. Mi pare che in materia ci sia ancora poco lavoro collettivo, e ancora molti nodi irrisolti.
Il prossimo numero di Micromega, un almanacco su Europa e Stati Uniti, pubblicherà i testi di un dibattito tra lei e Romano Prodi che si è tenuto all’Università di Bologna nel febbraio scorso. In quella occasione l’ex premier ed ex presidente della Commissione UE ha condiviso apertamente la sua proposta di introdurre controlli sui movimenti internazionali di capitale. Lo considera un segnale positivo?
Lo è senz’altro, ma devo ricordare che già da qualche anno capita che persino il Fondo Monetario Internazionale plachi i propri entusiasmi per le liberalizzazioni finanziarie e segnali i pericoli di una indiscriminata libertà di circolazione dei capitali. Il mondo intorno a noi cambia rapidamente, la politica italiana sembra sempre un po’ in ritardo. Specialmente a sinistra.
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