14/07/2017
Trump, o la politica che non c’è più
Tranquilli, non abbiamo alcuna intenzione di rifilarvi un altro scoop della serie Russiagate. Lasciamo volentieri a Repubblica e Giovanna Botteri il triste compito di aggiornare la lista, ormai lunga e ripetitiva, delle “prove” relative all’“aiutino” dato da fonti moscovite alla resistibile ascesa di Donald Trump.
Il punto su cui vorremmo invece invitarvi a riflettere è un tantino meno gossipparo: com’è stato possibile che un Mule del genere – vi consigliamo di rileggere la Trilogia della Fondazione, di Isaac Asimov – abbia assunto un ruolo così rilevante nell’ordine mondiale?
Stiamo parlando del paese e del potere che governa il mondo da 70 anni, all’incirca, in modo quantomeno discutibile ma quasi indubitabile (dopo la crisi a cavallo degli anni ‘60-’70); specie dopo la caduta dell’antagonista sovietico. Insomma, un “cuore” del dominio che dovrebbe essere costitutivamente al sicuro da incursioni improbabili, scalate individuali, cordate familiari in stile Dallas. Secondo ogni immaginario complottista sul potere e l’imperialismo yankee, la Casa Bianca è per definizione abitata da uomini e donne dell’establishment, scelti con cura dopo selezioni lunghissime, prove di fedeltà e di capacità gestionale di primissimo livello. Assassini nati e ben addestrati, non dilettanti allo sbaraglio.
Nulla a che vedere con questa famigliola di palazzinari cresciuta sui debiti e i vari Plaza, tra campi di golf e platee di wrestling. Il figliolo che riceve mail indiscrete dai russi e risponde “I love it” sarebbe una scena bocciata in qualunque b movie della Hollywood più sfortunata.
Eppure esiste e resta lì. Come si spiega? Sul serio...
A noi sembra evidente che “la politica” sia velocemente diventata una sfera di attività quasi secondaria, in tutto il capitalismo occidentale, a partire proprio dalla caduta dell’impero sovietico. Fin lì, è esistita una tensione reale e sociale fortissima che richiedeva personale di primo livello – statisti, insomma – in grado di esercitare mediazione politica all’interno del proprio mondo e confronto strategico all’esterno, nei confronti di un avversario (a torto o ragione) considerato di identica statura e potenza.
Mediazione sociale all’interno significava una qualche forma di “stato keynesiano”, equilibrismo continuo tra interessi imprenditoriali, finanziari, di lavoratori e piccoli commercianti, perseguimento di obiettivi vantaggiosi per tutti o comunque per una robusta maggioranza. Capacità insomma di costruire un consenso duraturo verso il blocco sociale dominante – ovviamente stretto intorno al capitale multinazionale, sia produttivo che finanziario – condividendo briciole più o meno consistenti di reddito, welfare, diritti esigibili, istruzione. Il confronto strategico giocato intorno all’“equilibrio del terrore”, dal canto suo, sconsigliava azzardi, dilettantismo, sottovalutazioni, “sortite da coatto”. Pretendeva professionalità, oltre che ferocia e determinazione.
In questo quadro, ogni squadra entrata nello studio Ovale aveva ben presente i limiti in cui poteva giocare un potere certo smisurato, ma non unico e incontrastabile.
La fine del “mondo diviso in due”, il trionfo del “pensiero unico”, le pratiche della globalizzazione come prassi “naturale”, la riduzione della complessità a rapporti commerciali e trattati imposti dai più forti... insomma le forze economiche che non trovano più ostacoli all’affermazione planetaria dei propri interessi, hanno disegnato un mondo in cui “la politica” non ha più avuto un senso né un pensiero strategico. “Chiunque vinca, quel che c’è da fare è chiaro”, si erano subito abituati a dire gli imprenditori di tutto il mondo. Privatizzazioni, liberalizzazioni, abolizione dei contratti di lavoro, drenaggio di risorse verso pochissimi “privati” ultrapotenti, taglio della spesa pubblica (a meno di non essere una banca, ovvio...), revisioni costituzionali pro governance, abolizione o arruolamento dei sindacati, distruzione di Stati non perfettamente allineati... Se non c’è una possibilità di alternativa, non nascono più progetti differenti, nemmeno in dettagli secondari.
Senza avversari all’interno (classi sociali organizzate intorno a interessi codificati, con un pensiero politico corrispondente), senza avversari nella geopolitica, che bisogno c’è (o c’era?) di una classe politica prudente, abile, luciferina, selezionata nell’arco di una vita, in grado di temperare gli “spiriti animali” del capitale all’interno di una strategia complessa, di lungo periodo, per superiori obiettivi “di classe”, non banalmente aziendalistici? Basta un contafrottole qualsiasi, che funzioni bene in tv, rimediato con un casting e ben supportato da cento spin doctor. Dura quel che dura, e poi avanti un altro...
I segnali di questa crisi, anche all’interno dell’unica superpotenza rimasta, si sono moltiplicati nell’arco di appena due decenni. Quel forsennato entrare ed uscire dalle cariche governative per traslocare nei cda multinazionali e viceversa (Dick Cheney, Condoleeza Rice, Lawrence Summers, e centinaia di altri) cancellava in pochi anni il confine professionale, esperienziale ed etico tra “strateghi dell’interesse pubblico” – imperiale, collettivo, radicato in un contesto nazionale, da riprodurre e conservare ben al di là del tempo di vita dei protagonisti (individui) – e avvoltoi dalla visuale ristretta dentro una logica aziendale (breve periodo, massimizzazione degli utili e del rischio, asset sacrificabili in vista di merger più colossali, indifferenti al futuro).
Il segnale più evidente è stato comunque l’emergere di autentiche “dinastie politiche” alla guida dei due tradizionali schieramenti della politica statunitense. I Bush e i Clinton hanno monopolizzato i rispettivi campi; lo stesso Barack Obama è in fondo servito a nascondere questo rinsecchimento della classe politica Usa, almeno fin quando ha potuto coprire il ruolo. Poi il nulla è apparso per come era.
Nel nulla Trump si è infilato con relativa facilità, proponendosi come il campione degli scontenti contro l’establishment, nonostante fosse chiaramente fin troppo fasullo in quella parte; e grazie a un sistema elettorale che solo ora ha mostrato di essere al tempo stesso truffaldino e pure inefficace. Fin quando è esistito il bisogno di selezione-riproduzione di una classe politica era praticamente impossibile che un “cane pazzo” riuscisse ad emergere dalle qualifiche fino ad arrivare alla finale. Quando questo bisogno ha cessato di esistere – dopo quasi tre decenni di lento logorio – tutto si è giocato come una pura e semplice campagna pubblicitaria a scadenza fissa. Dove la bontà del prodotto ha ben poco a che vedere con l’efficacia degli slogan, degli spot o delle battute.
Certo, Trump finirà per impiccarsi con le sue stesse mani, grazie a una squadra di fedelissimi ridotta alla famiglia e qualche fuori di testa preso dai neocons più ideologizzati, buoni per una campagna elettorale zoticona, non per governare il mondo.
Ma il problema resta irrisolvibile per la superpotenza: dove lo trovi, oggi, uno “statista” che sappia parlare al cuore e alla testa dei cittadini e, contemporaneamente, muoversi lucidamente in un mondo ormai multipolare? Dove la metti insieme una visione che permetta di convogliare le energie di un paese o meglio ancora di mezzo mondo? La “fine delle ideologie” è sbiadita in evaporazione delle idee...
Lo stesso problema si è del resto già manifestato, con forza devastante, anche nella più tradizionale “Vecchia Europa”. I Macron e i Renzi avranno (o hanno già avuto) vita breve. E dietro la “brava massaia” Merkel non si intravede neanche in Germania qualcosa che somigli a uno “statista”.
Il capitalismo attuale ha bruciato “la politica” e con lei ogni bisogno di un pensiero strategico. Non può ora ricrearla senza passare attraverso una lunga stagione di conflitti e di crisi, senza progetti.
Riuscirà a sopravviverle?
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