Il neoliberismo – come teoria economica, ma soprattutto come modello strutturale di funzionamento del capitalismo euro-atlantico (il principale dei “capitalismi” esistenti) – è in crisi radicale. Ma sopravvive nella “narrazione mediatica” perché ha ancora un’utilità residuale: consente di mantenere ai minimi la dinamica salariale dei lavoratori dipendenti e di demolire anche gli ultimi residui di welfare (la sanità, in primo luogo).
Fuori da questo ambito ristretto, ai piani alti della governance transatlantica è stato soppresso silenziosamente: si fa in altri modi, si raccontano le stesse sciocchezze.
Detto altrimenti, non è più tabù l’“intervento pubblico nell’economia”. Anzi è richiestissimo. Che questo intervento sia agito da uno Stato imperiale come gli Usa, oppure da un insieme di Stati uniti da trattati vincolanti ma sempre più minati da “eccezioni” presentate come “temporanee” (l’Unione Europea, insomma), non fa moltissima differenza.
Anche questa non è una novità. Quando i mitici “mercati finanziari” rischiarono il tracollo, tra il 2007 e il 2009, l’intervento pubblico fu colossale, inducendo addirittura l’ex presidente della Banca Mondiale, Joseph Stiglitz, a parlare di “socialismo per ricchi”.
Quello schema sembra ora confermato di fronte alle necessità della cosiddetta “transizione ecologica”, che induce anche i governi meno propensi a “programmare” interventi economici o produttivi a farsi promotori di finanziamenti consistenti per orientare le scelte delle imprese più grandi (le “locomotive” che dovrebbero poi trascinare intere filiere industriali verso una produzione ambientalmente più sostenibile).
Passando però dal mondo virtuale della finanza a quello molto “fisico” della produzione industriale gli intoppi si moltiplicano.
A grandi linee si può dire che l’obiettivo dichiarato è quello di passare da un sistema che utilizza come fonte energetica principale gli idrocarburi ad un altro fondato sull’elettricità. Nella fase di transizione tra i due sistemi si è deciso di puntare sul gas, che genera meno emissioni climalteranti (meno, non “poche”) rispetto a petrolio e carbone, ed è presente ancora in quantità consistenti (al contrario del greggio).
Ma nel mondo fisico tra il dire e il fare ci passano oceani...
Lasciamo per un attimo da parte le forti obiezioni scientifiche sollevate davanti a questo tipo di transizione (elettrificare pressoché tutto non è detto sia ambientalmente più “sostenibile”, visto che i sistemi di accumulo richiedono materiali che vano comunque estratti e poi smaltiti, senza considerare tramite quale fonte l'elettricità viene prodotta), e prendiamo in esame soltanto le conseguenze sui sugli apparati produttivi esistenti – di dimensioni gigantesche, nell’insieme – e sulla tenuta sociale dei Paesi interessati.
Se fossimo infatti in un mondo sagomato dall’interesse collettivo anziché da quello privati (il profitto come unica molla della produzione), l’operazione sarebbe molto complessa e impegnativa, ma avrebbe probabilmente qualche possibilità di riuscita. L’esempio della Cina – che certo non disprezza il profitto privato, ma prova a renderlo funzionale dentro una programmazione centralizzata – è in questo senso piuttosto probante.
In un contesto dove “la libertà d’impresa” è un totem dispositivo di dominio che ormai ha demolito o sussunto in gran parte il potere degli stessi Stati, raggiungere quell’obiettivo appare però pressoché impossibile.
In primo luogo perché avviene dentro una competizione che coinvolge sia le imprese che gli Stati, per cui quella che – in termini concettuali astratti – dovrebbe essere una “pacifica sostituzione” di determinati sistemi industriali con altri diventa una feroce guerra in cui certe filiere industriali scompaiono rovinosamente, mentre altre si appropriano di quegli spazi di mercato. Se va bene.
Vista la scala dimensionale, oltretutto, questo processo anarchico e conflittuale stravolge la struttura sociale delle popolazioni interessate, e di conseguenza anche la “tenuta politica” delle entità statali coinvolte.
Un quadro indicativo del livello dei problemi che si stanno delineando, in modo molto concreto e lucido, viene fornito ancora una volta da Guido Salerno Aletta in un importante editoriale per l’Agenzia TeleBorsa.
Altamente consigliato, se non si vuol “parlare di politica” in modo vacuo...
Buona lettura.
Fuori da questo ambito ristretto, ai piani alti della governance transatlantica è stato soppresso silenziosamente: si fa in altri modi, si raccontano le stesse sciocchezze.
Detto altrimenti, non è più tabù l’“intervento pubblico nell’economia”. Anzi è richiestissimo. Che questo intervento sia agito da uno Stato imperiale come gli Usa, oppure da un insieme di Stati uniti da trattati vincolanti ma sempre più minati da “eccezioni” presentate come “temporanee” (l’Unione Europea, insomma), non fa moltissima differenza.
Anche questa non è una novità. Quando i mitici “mercati finanziari” rischiarono il tracollo, tra il 2007 e il 2009, l’intervento pubblico fu colossale, inducendo addirittura l’ex presidente della Banca Mondiale, Joseph Stiglitz, a parlare di “socialismo per ricchi”.
Quello schema sembra ora confermato di fronte alle necessità della cosiddetta “transizione ecologica”, che induce anche i governi meno propensi a “programmare” interventi economici o produttivi a farsi promotori di finanziamenti consistenti per orientare le scelte delle imprese più grandi (le “locomotive” che dovrebbero poi trascinare intere filiere industriali verso una produzione ambientalmente più sostenibile).
Passando però dal mondo virtuale della finanza a quello molto “fisico” della produzione industriale gli intoppi si moltiplicano.
A grandi linee si può dire che l’obiettivo dichiarato è quello di passare da un sistema che utilizza come fonte energetica principale gli idrocarburi ad un altro fondato sull’elettricità. Nella fase di transizione tra i due sistemi si è deciso di puntare sul gas, che genera meno emissioni climalteranti (meno, non “poche”) rispetto a petrolio e carbone, ed è presente ancora in quantità consistenti (al contrario del greggio).
Ma nel mondo fisico tra il dire e il fare ci passano oceani...
Lasciamo per un attimo da parte le forti obiezioni scientifiche sollevate davanti a questo tipo di transizione (elettrificare pressoché tutto non è detto sia ambientalmente più “sostenibile”, visto che i sistemi di accumulo richiedono materiali che vano comunque estratti e poi smaltiti, senza considerare tramite quale fonte l'elettricità viene prodotta), e prendiamo in esame soltanto le conseguenze sui sugli apparati produttivi esistenti – di dimensioni gigantesche, nell’insieme – e sulla tenuta sociale dei Paesi interessati.
Se fossimo infatti in un mondo sagomato dall’interesse collettivo anziché da quello privati (il profitto come unica molla della produzione), l’operazione sarebbe molto complessa e impegnativa, ma avrebbe probabilmente qualche possibilità di riuscita. L’esempio della Cina – che certo non disprezza il profitto privato, ma prova a renderlo funzionale dentro una programmazione centralizzata – è in questo senso piuttosto probante.
In un contesto dove “la libertà d’impresa” è un totem dispositivo di dominio che ormai ha demolito o sussunto in gran parte il potere degli stessi Stati, raggiungere quell’obiettivo appare però pressoché impossibile.
In primo luogo perché avviene dentro una competizione che coinvolge sia le imprese che gli Stati, per cui quella che – in termini concettuali astratti – dovrebbe essere una “pacifica sostituzione” di determinati sistemi industriali con altri diventa una feroce guerra in cui certe filiere industriali scompaiono rovinosamente, mentre altre si appropriano di quegli spazi di mercato. Se va bene.
Vista la scala dimensionale, oltretutto, questo processo anarchico e conflittuale stravolge la struttura sociale delle popolazioni interessate, e di conseguenza anche la “tenuta politica” delle entità statali coinvolte.
Un quadro indicativo del livello dei problemi che si stanno delineando, in modo molto concreto e lucido, viene fornito ancora una volta da Guido Salerno Aletta in un importante editoriale per l’Agenzia TeleBorsa.
Altamente consigliato, se non si vuol “parlare di politica” in modo vacuo...
Buona lettura.
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Necessari processi di riequilibrio
Necessari processi di riequilibrio
Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa
È del tutto fuori luogo lamentarsi per il fatto che gli Stati Uniti stiano finanziando con consistenti fondi pubblici la loro reindustrializzazione, nel settore dei microchip e della transizione energetica, della costruzione di fabbriche per le auto elettriche e batterie.
Aumenta il deficit federale, certo, ma è così che si raccoglie il risparmio ed il capitale per destinarlo alla economia reale: un tipico schema di intervento keynesiano, che parte dalla spesa pubblica per gli investimenti.
D’altra parte, è esattamente quello che sta facendo l’Unione europea con il programma NGUE, di cui l’Italia beneficia ampiamente con i fondi stanziati nel PNRR: gli assi di intervento sono gli stessi, transizione digitale e transizione ambientale, in un contesto di rafforzata coesione sociale. Anche qui è spesa pubblica per investimenti, finanziata con nuovo debito pubblico.
Il vantaggio per l’Italia risiede nel fatto che il tasso di interesse che pagheremo su questo debito è più basso di quello che paghiamo sulle emissioni dei nostri titoli di Stato in quanto la provvista sui mercati è effettuata direttamente dalla Unione Europea, attraverso una Banca Agente, avendo un rating migliore del nostro e quindi a tassi molto più bassi.
Cosa assai diversa è invece esprimere un giudizio sul merito di queste politiche: valutare se siano davvero convenienti o meno; capire se in fondo non si vadano a dare soldi pubblici a palate alle solite grandi industrie, le uniche in grado di gestire processi così impegnativi; oppure, ancora, entrare nel merito di questa gigantesca operazione di decarbonizzazione dell'economia, che prevede l'elettrificazione di ogni consumo energetico partendo da fonti rinnovabili.
Non c’è dubbio che dietro tutta questa corsa alla Green Economy ci siano interessi finanziari enormi e la voglia di cambiare profondamente alcuni equilibri geopolitici: togliere di mezzo il carbone ed il petrolio, usando il gas nella fase di transizione, ha un impatto enorme sui flussi di spesa che si muovono annualmente per questi acquisti di fonti energetiche di origine fossile.
Il quadro di riferimento globale è quello del COP, la strategia dell’ONU volta ad assicurare una metrica comune ed affidabile per verificare il rispetto dei traguardi di riduzione delle emissioni di CO2, fino alla parità tra emissioni ed assorbimenti prevista per metà secolo.
Peraltro, a livello di accordi internazionali, ci sono Paesi di straordinaria importanza in termini di produzione, di consumi energetici e di emissioni, come la Cina, che è rimasta ferma ad impegni a più lungo termine, ed altri come l’India che traguardano addirittura il 2070.
Praticamente, è una scadenza che arriva tra mezzo secolo: a guardarsi indietro, è lo stesso tempo che è passato dal 1973 ad oggi.
Nessuno può davvero prevedere che cosa succederà nei prossimi cinquant’anni.
E neppure bisogna illudersi che se ne stiano tutti con le mani in mano: visto che l’Unione europea ha deciso di vietare a partire dal 2035 l'immissione in commercio di automobili con motori a combustione interna, la Cina si sta già attrezzando da tempo per produrle in casa ed esportarle da noi, battendo la concorrenza delle produzioni europee.
Forse anche di quelle americane, anche se un dubbio rimane, visto che tra dazi e sanzioni il quadro della competizione commerciale è sempre più frastagliato: la legge americana (IRA), che prevede un sussidio pubblico per gli acquisti di auto elettriche, all’inizio era stata formulata in modo da limitarne la erogazione solo nel caso delle auto fabbricate negli USA. La Commissione europea si è lamentata, e sembra che questa esclusiva sia stata rimossa.
Bisogna guardare intanto al quadro di insieme, fatto di squilibri.
Il disavanzo commerciale degli Stati Uniti per merci è enorme ed insostenibile. Devono ad ogni costo ridurlo, perché altrimenti ne va della stabilità del sistema: non possono peggiorarlo ogni anno di 100 miliardi di dollari che vanno finanziati.
Neppure gli avanzi commerciali strutturali di Germania e Giappone sono sostenibili: sono sistemi sociali che lavorano prevalentemente per le esportazioni. Hanno accumulato posizioni finanziarie attive impressionanti, ricchezza finanziaria sull’estero, in investimenti azionari, partecipazioni e crediti di ogni genere. Valori che dipendono, quanto a stabilità, dalla solidità stessa dei Paesi in cui hanno investito.
Ma entrambi questi Paesi, per motivi diversi, stanno vedendo andare a picco il loro export.
Nel 2022, la Germania ha avuto il peggior saldo attivo delle partite correnti dal 2000, con appena 168 miliardi di dollari rispetto ai 294 miliardi del 2019, l’anno che precede la crisi sanitaria del biennio 2020-2021. Un importo praticamente dimezzato, come dimostra anche la percentuale sul PIL, passata dal 7,5% al 4,2%.
Il Giappone è passato da un saldo attivo di 176 miliardi di dollari del 2019 ad uno di appena 58 miliardi nel 2022, riducendosi quindi ad un terzo, come dimostra anche la percentuale sul PIL, crollata dal 3,4% all’1,3%.
Tutto questo si riflette sul valore complessivo dei saldi delle partite correnti dei Paesi del G7, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti, che è precipitato da un saldo negativo per 9 miliardi di dollari nel 2019 ad uno negativo per 939 miliardi di dollari nel 2022.
In pratica, il minor avanzo commerciale di Germania e Giappone, i due Paesi che tenevano insieme a galla gli equilibri del G7, ora li sta facendo affondare.
Il fatto è che alla riduzione che abbiamo rilevato dei saldi attivi di Germania e Giappone non ha corrisposto affatto una riduzione del saldo passivo degli Stati Uniti: il loro disavanzo è peggiorato, passando dai -620 miliardi di dollari del 2019 ai -985 miliardi del 2022.
Purtroppo, anche il saldo passivo della Gran Bretagna è precipitato, passando dai -77 miliardi di dollari del 2019 ai -154 miliardi del 2022.
Anche la Francia continua a galleggiare malamente, visto che il passivo di -14 miliardi di dollari del 2019 è arrivato a -35 miliardi nel 2022.
L’Italia, a sua volta, ha visto erodere il suo attivo, passando dai +65 miliardi del 2019 ai -3 miliardi del 2022.
Gli Usa stanno tentando la strada dell'industrializzazione nei comparti del green e della produzione informatica.
Anche in Europa si è decisa la stessa strategia. Ma è sfida incertissima, soprattutto perché il valore degli asset che si distruggono in Europa sono enormi, in termini finanziari, economici e di occupazione.
Azzoppare tutti insieme, la Germania, la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia, così come mandare il Giappone a gambe all’aria, può essere molto pericoloso.
Servirebbe una strategia diversa, meno distruttiva: deintensificare il lavoro nei Paesi in cui c’è un attivo commerciale strutturale, Germania e Giappone per primi, spostando il driver della crescita dall’export al maggior benessere interno.
Ma è una logica non conforme ai principi della competizione capitalistica.
In questa frenesia della transizione energetica ed ambientale, il G7 sta affondando: distruggere per ricominciare da zero, facendo tabula rasa, può essere una pericolosa illusione.
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