Ci è capitato spesso di scrivere che il “fascismo storico” – quello feroce e manganellatore di Mussolini, insomma – fu la forma politica in cui venne imposta la “modernizzazione” a un paese fondamentalmente contadino come l’Italia, ancora basato sulla predominanza del latifondo e dello sfruttamento intensivo di manodopera a bassissimo costo.
In altri paesi lo stesso processo di modernizzazione, tra le due guerre mondiali, si impose con altri metodi politici – si pensi all’America di Roosevelt, alla Gran Bretagna “tradunionista” o alla Francia “socialista” – come manifestazione di una esigenza profonda del capitalismo occidentale, alle prese con cambiamenti tecnologici, diversificazione delle fonti energetiche (dal carbone al petrolio), nel pieno di una “movimentata” transizione dall’egemonia imperialista britannica a quella statunitense.
Dal punto di vista capitalistico, insomma, quel fascismo aveva almeno qualche “merito” nei confronti di una prospettiva di sviluppo. Molto straccione e vanaglorioso, incline ai fondali di cartone per sostituire marmi scarseggianti, ma insomma “sviluppo”.
L’apice di questa tensione alla “modernizzazione reazionaria” fu, com’è noto, la Germania nazista, il cui sviluppo industriale fu così veloce e poderoso da lasciar crescere anche l’idea folle di poter conquistare uno “spazio vitale” molto più ampio, sottomettendo i vicini e “sfondando ad est”, verso l’Unione Sovietica.
Ci è capitato dunque anche di scrivere che, al contrario, gli ultimi governi italioti hanno spianato la strada al post-fascismo meloniano presente rispondendo – senza neanche la forza intellettuale di teorizzarlo – alla necessità opposta: gestire il declino irrimediabile del paese.
C’è ovviamente una enorme differenza tra crescita e declino, ma paradossalmente queste due fasi storicamente lontane quasi un secolo vengono gestite con lo stesso tipo di personale politico: i manganellatori.
Ma anche in questo la differenza si ripropone: tra i fascisti storici, pur nell’orrore di un regime che doveva schiacciare i lavoratori (e dunque gli oppositori), qualche testa pensante c’era. E potremmo di nuovo citare Giovanni Gentile e la sua “riforma della scuola”, imparagonabile con gli aborti distruttivi messi su strada negli ultimi 30 anni e soprattutto con le sortite anticipatorie di un certo Valditara.
Dunque, un personale politico scadente, che reagisce nello stesso modo – il “divieto”, la “fermezza”, l’”inasprimento delle pene”, l’”inseguiremo per tutto il globo terracquo” – a ogni problema di cui vuole ignorare cause, origine, caratteristiche specifiche. A cui, insomma, non sa né vuol dare “soluzioni efficaci”.
Chiaro che questo sprofondare politico ha radici nello sprofondamento del sistema produttivo, che nel bene e soprattutto nel male condiziona modi di vivere e dunque anche di pensare di tutta la popolazione.
Un breve ma fulminante editoriale di Guido Salerno Aletta su TeleBorsa ci conferma nell’analisi più volte fatta: una “classe dirigente” che da oltre 30 anni va perseguendo la redditività del sistema delle imprese tramite l’estrazione di plusvalore assoluto sta condannando il Paese, ma anche se stessa, al degrado senza speranza.
In termini marxiani, puntare sul plusvalore assoluto significa intensificare l’orario di lavoro (aumentando il numero di ore lavorate in un mese), ridurre i salari, eliminare i diritti dei lavoratori, ostacolare l’attività sindacale e corrompere i sindacati più grandi, privilegiare i contratti precari e il lavoro nero, ecc.
Un modo di fare profitti inevitabilmente giocato sui mezzucci, tipo il negoziante che mette il dito sulla bilancia, e che vede “le tasse” – a questo punto – come la più grande minaccia a margini di guadagno percentualmente sempre bassissimi.
In trenta anni di precarizzazione, basati sull’ideologia del “piccolo è bello”, delle liberalizzazioni e privatizzazioni di tutto ciò che era pubblico, la situazione è precipitata. Le grandi imprese trainanti l’innovazione e l’indotto sono scomparse o vendute, spesso per farne “spezzatino”.
Prevale ovunque la piccola e media dimensione. Ma oggi il piccolo vuol dire morte. Perché in assenza di investimenti produttivi le dimensioni di impresa sono condannate a restringersi all’infinito. E “il privato” non investe, mentre “il pubblico” è obbligato a non farlo dai trattati europei.
Ma imprenditori che non vedono al di là del proprio naso, visto l’ordine di piccolezza di quel che guidano, non possono dare nessuna “visione” di medio periodo al paese. Si campa alla giornata, grattando qui e là, chiedendo “sostegni”, “incentivi”, “sgravi”, “meno controlli”...
Il risultato, analizza Salerno Aletta, si vede dal bilancio import-export delle “figure professionali”. Da cui appare chiarissimo che esportiamo cervelli e pensionati. Importiamo braccianti e badanti.
In altre parole, quel che ancora producono di buono i residui del “vecchio sistema” (competenze professionali sperimentate e forze fresche formate da ciò che resta della scuola pubblica) prendono la via che porta a paesi con salari migliori (i giovani talenti) oppure con un costo della vita più basso (i pensionati).
In entrambi i casi, vediamo come la spesa pubblica viene sistemicamente sprecata per l’ottusa obbedienza alle “pretese delle imprese”: i soldi spesi per la formazione di nuovi talenti non servono ad accrescere la qualità della forza lavoro impiegata “in patria”, e una parte della spesa pensionistica non si traduce in consumi domestici (che fanno comunque Pil).
E naturalmente i “moralizzatori” di Confindustria prendono questi dati per chiedere ancora maggiori riduzioni della spesa per scuola-università-ricerca e, con ancora più ferocia, della spesa per pensioni...
Siccome il sistema che è stato messo in campo è autodistruttivo, ad ogni passo verso l’estinzione viene invocato un “di più” di autodistruzione.
Per un obiettivo “storico” del genere, cosa c’è di più “adatto” di un personale fascistoide e incapace?
Buona lettura.
In altri paesi lo stesso processo di modernizzazione, tra le due guerre mondiali, si impose con altri metodi politici – si pensi all’America di Roosevelt, alla Gran Bretagna “tradunionista” o alla Francia “socialista” – come manifestazione di una esigenza profonda del capitalismo occidentale, alle prese con cambiamenti tecnologici, diversificazione delle fonti energetiche (dal carbone al petrolio), nel pieno di una “movimentata” transizione dall’egemonia imperialista britannica a quella statunitense.
Dal punto di vista capitalistico, insomma, quel fascismo aveva almeno qualche “merito” nei confronti di una prospettiva di sviluppo. Molto straccione e vanaglorioso, incline ai fondali di cartone per sostituire marmi scarseggianti, ma insomma “sviluppo”.
L’apice di questa tensione alla “modernizzazione reazionaria” fu, com’è noto, la Germania nazista, il cui sviluppo industriale fu così veloce e poderoso da lasciar crescere anche l’idea folle di poter conquistare uno “spazio vitale” molto più ampio, sottomettendo i vicini e “sfondando ad est”, verso l’Unione Sovietica.
Ci è capitato dunque anche di scrivere che, al contrario, gli ultimi governi italioti hanno spianato la strada al post-fascismo meloniano presente rispondendo – senza neanche la forza intellettuale di teorizzarlo – alla necessità opposta: gestire il declino irrimediabile del paese.
C’è ovviamente una enorme differenza tra crescita e declino, ma paradossalmente queste due fasi storicamente lontane quasi un secolo vengono gestite con lo stesso tipo di personale politico: i manganellatori.
Ma anche in questo la differenza si ripropone: tra i fascisti storici, pur nell’orrore di un regime che doveva schiacciare i lavoratori (e dunque gli oppositori), qualche testa pensante c’era. E potremmo di nuovo citare Giovanni Gentile e la sua “riforma della scuola”, imparagonabile con gli aborti distruttivi messi su strada negli ultimi 30 anni e soprattutto con le sortite anticipatorie di un certo Valditara.
Dunque, un personale politico scadente, che reagisce nello stesso modo – il “divieto”, la “fermezza”, l’”inasprimento delle pene”, l’”inseguiremo per tutto il globo terracquo” – a ogni problema di cui vuole ignorare cause, origine, caratteristiche specifiche. A cui, insomma, non sa né vuol dare “soluzioni efficaci”.
Chiaro che questo sprofondare politico ha radici nello sprofondamento del sistema produttivo, che nel bene e soprattutto nel male condiziona modi di vivere e dunque anche di pensare di tutta la popolazione.
Un breve ma fulminante editoriale di Guido Salerno Aletta su TeleBorsa ci conferma nell’analisi più volte fatta: una “classe dirigente” che da oltre 30 anni va perseguendo la redditività del sistema delle imprese tramite l’estrazione di plusvalore assoluto sta condannando il Paese, ma anche se stessa, al degrado senza speranza.
In termini marxiani, puntare sul plusvalore assoluto significa intensificare l’orario di lavoro (aumentando il numero di ore lavorate in un mese), ridurre i salari, eliminare i diritti dei lavoratori, ostacolare l’attività sindacale e corrompere i sindacati più grandi, privilegiare i contratti precari e il lavoro nero, ecc.
Un modo di fare profitti inevitabilmente giocato sui mezzucci, tipo il negoziante che mette il dito sulla bilancia, e che vede “le tasse” – a questo punto – come la più grande minaccia a margini di guadagno percentualmente sempre bassissimi.
In trenta anni di precarizzazione, basati sull’ideologia del “piccolo è bello”, delle liberalizzazioni e privatizzazioni di tutto ciò che era pubblico, la situazione è precipitata. Le grandi imprese trainanti l’innovazione e l’indotto sono scomparse o vendute, spesso per farne “spezzatino”.
Prevale ovunque la piccola e media dimensione. Ma oggi il piccolo vuol dire morte. Perché in assenza di investimenti produttivi le dimensioni di impresa sono condannate a restringersi all’infinito. E “il privato” non investe, mentre “il pubblico” è obbligato a non farlo dai trattati europei.
Ma imprenditori che non vedono al di là del proprio naso, visto l’ordine di piccolezza di quel che guidano, non possono dare nessuna “visione” di medio periodo al paese. Si campa alla giornata, grattando qui e là, chiedendo “sostegni”, “incentivi”, “sgravi”, “meno controlli”...
Il risultato, analizza Salerno Aletta, si vede dal bilancio import-export delle “figure professionali”. Da cui appare chiarissimo che esportiamo cervelli e pensionati. Importiamo braccianti e badanti.
In altre parole, quel che ancora producono di buono i residui del “vecchio sistema” (competenze professionali sperimentate e forze fresche formate da ciò che resta della scuola pubblica) prendono la via che porta a paesi con salari migliori (i giovani talenti) oppure con un costo della vita più basso (i pensionati).
In entrambi i casi, vediamo come la spesa pubblica viene sistemicamente sprecata per l’ottusa obbedienza alle “pretese delle imprese”: i soldi spesi per la formazione di nuovi talenti non servono ad accrescere la qualità della forza lavoro impiegata “in patria”, e una parte della spesa pensionistica non si traduce in consumi domestici (che fanno comunque Pil).
E naturalmente i “moralizzatori” di Confindustria prendono questi dati per chiedere ancora maggiori riduzioni della spesa per scuola-università-ricerca e, con ancora più ferocia, della spesa per pensioni...
Siccome il sistema che è stato messo in campo è autodistruttivo, ad ogni passo verso l’estinzione viene invocato un “di più” di autodistruzione.
Per un obiettivo “storico” del genere, cosa c’è di più “adatto” di un personale fascistoide e incapace?
Buona lettura.
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Esportiamo cervelli e pensionati. Importiamo braccianti e badanti
Esportiamo cervelli e pensionati. Importiamo braccianti e badanti
Guido Salerno Aletta – Editorialista dell’Agenzia Teleborsa
È di questi giorni la ripresa del dibattito sulla riforma fiscale, con l’ipotesi di ridurre da tre a due le aliquote inferiori: la prospettiva è quella della Flat Tax, il traguardo da sempre coltivato da chi vuole dare respiro ai lavoratori autonomi, ai commercianti e agli artigiani, che sono scoperti di fronte ad ogni perturbazione economica.
In fondo, i lavoratori dipendenti sarebbero maggiormente tutelati: ma forse è un’idea con poco fondamento, ormai, vista la precarizzazione dei rapporti lavorativi.
C’è chi sostiene che la misura è poco razionale, in quanto non considera che una parte preponderante del carico tributario è già messa a carico dei redditi medi, che contribuiscono per l’80% al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.
C’è chi si preoccupa della riduzione delle entrate che ne conseguirebbe, ed al pericolo che possa essere messa a rischio la struttura portante del Servizio sanitario nazionale: un po’ alla volta, un taglio dopo l’altro, la spesa per prestazioni private cresce sempre di più.
In pratica, non si tratta solo di un sistema in cui la sanità privata copre le carenze delle sanità pubblica, ma di un assetto in cui questa si ritira per mancanza di risorse, nella prospettiva di rendere indispensabile una polizza assicurativa integrativa.
È esattamente lo stesso processo che si è cercato inutilmente di imporre con le pensioni integrative: visto che il sistema della previdenza obbligatoria sarà sempre meno generoso, è gioco forza sottoscrivere un piano di previdenza complementare. Ma è ormai un fallimento: soldi ce ne sono pochi, ed i Fondi stessi non hanno un futuro roseo.
Quindi, tanto sul Fisco, che sulla Sanità e la Previdenza sociale, il sistema pubblico è assai fragile. Ma quello privato non decolla, perché i redditi sono quelli che sono, assorbiti dalle spese per i consumi quotidiani.
Il punto è il modello di crescita: ormai da un decennio, si è decisamente imboccata la strada del mercantilismo fondato sui bassi salari anziché sull’alto valore aggiunto. L’Italia deve esportare, nella competizione internazionale, basandosi sul fattore prezzo che si unisce al brand indiscutibile del Made in Italy: prezzi convenienti per un prodotto di qualità.
Questa strategia ha deformato l’atteggiamento delle imprese, che hanno puntato tutto sull’abbattimento dei salari anziché sulla innovazione dei processi produttivi che porterebbero all’identico risultato mediante investimenti in innovazione di impianti e nuove tecnologie. E quando si lamentano della carenza di professionalità elevate, trascurano il fatto che c’è una concorrenza internazionale sul fattore lavoro. I ragazzi italiani ormai preferiscono andare a lavorare all’estero, con stipendi più elevati.
La reazione imprenditoriale è sempre la stessa: si chiede la riduzione del cuneo fiscale, il che significa maggior salario netto in busta paga a parità di costi per l’impresa e minor gettito fiscale; più flessibilità nei contratti; più immigrazione a basso costo.
Il sistema che è stato messo in campo è autodistruttivo, nonostante i correttivi introdotti per ridurre l’imposizione fiscale nei confronto di chi rientra o viene a lavorare in Italia con provenienza dagli altri Paesi della Ue: mentre “esportiamo” la capacità produttiva dei giovani cervelli che all’estero guadagnano di più, e la capacità di spesa dei pensionati che pagano meno tasse in Paesi stranieri come il Portogallo o la Tunisia, “importiamo” manodopera poco qualificata.
Abbiamo messo in piedi un modello che penalizza gli investimenti e l’impiego di personale qualificato. Un sistema che si basa sul precariato, a salari sempre più bassi.
Bisogna detassare gli investimenti, non i bassi salari.
Fonte
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