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25/03/2023

Depeche Mode - 2023 - Memento Mori

Sono davvero pochi i dischi pubblicati dai Depeche Mode senza che traversie esterne abbiano contraddistinto le fasi di stesura del progetto.
In un’ipotetica classifica di questo tipo, la morte di Andrew Fletcher si collocherebbe, senza ombra di dubbio, nella posizione più alta.
L’improvvisa scomparsa di Andy, avvenuta lo scorso 26 maggio a causa di una dissezione aortica, ha fatto traballare pericolosamente, come mai prima d’ora, le già fragili dinamiche che hanno accompagnato il gruppo praticamente per tutto il percorso ormai ultra-quarantennale.
In occasione di una recente intervista, senza malizia ma sicuramente con poco tatto, a Dave Gahan è scappata un’affermazione che illustrava, da un lato, il ruolo fondamentale rivestito da "Fletch" nella gestione delle questioni organizzative, economiche, contrattuali e strategiche, ma dall’altro esternava la sua ormai definitiva assenza nell’apportare un contributo alla parte creativa, lui che partiva dall’essere agli esordi l’unico vero musicista dell’allora quartetto. Ne è prova il fatto che, al momento del ferale episodio, il materiale poi confluito nel quindicesimo album in studio dal titolo “Memento Mori” fosse già pronto e in traiettoria per essere registrato.
Probabilmente è proprio per questo che Martin Gore e Gahan non sembrano aver avuto troppe remore nel portare avanti in duo il leggendario marchio Depeche Mode, se si esclude qualche tentennamento iniziale di Dave subito fugato dopo l’ascolto di alcune demo inviategli da Martin.
D’altra parte i Depeche Mode erano, da parecchio tempo, un terzetto solo di facciata, vista la solida e imperitura presenza di numerosi e illustri collaboratori.

Ciò che mancherà, e purtroppo per sempre, è la presenza dell’amico Andy, il ragazzone sornione e sorridente, che ha letteralmente sottratto più volte la band dallo scioglimento.

“Memento Mori” ovvero “Ricordati che devi morire”, è un’intestazione stabilita già prima della morte di Fletcher, un titolo che mi fa ricordare una famosa e stranamente calzante battuta di un film di Massimo Troisi e Roberto Benigni. In effetti, in connessione con questa stravagante similitudine, il vero messaggio che Gore, Gahan e soci vogliono veicolare mediante queste dodici canzoni è proprio quello d’innescare una riflessione sul fatto che la vita dell’individuo è assai breve, in troppi frangenti riservata a pensieri funesti, pessimistici. L’invito è quello di vivere le proprie emozioni nel modo più efficace possibile, senza cattiverie gratuite o catastrofismo; un messaggio inedito per chi ha da sempre costruito fortune esprimendo versi di dolore e malessere esistenziale.

Si scriveva dei collaboratori, ebbene, la squadra è composta da nomi d’incondizionato prestigio: dalla produzione di James Ford (Gorillaz, Arctic Monkeys, Foals) e della nostrana Marta Salogni (Bjork, Animal Collective, XX), entrambi anche coautori di alcuni brani, da Peter Gordeno e Christian Eigner, ormai considerabili membri effettivi, dalle partiture orchestrali del Maestro Davide Rossi (Verve, Coldplay, Goldfrapp, Royksopp), registrate al Six Feet Under Studios di Torino e, dulcis in fundo, da Richard Butler, sì, proprio il leader degli Psychedelic Furs, anch’egli coautore di ben quattro pezzi. Una fase di scrittura che, come al solito, è una prerogativa pressoché esclusiva di Martin Gore, se si eccettuano un paio di contributi (apprezzabili) forniti da Gahan, da qualche anno inseritosi anche come autore.

Il fattore che emerge incontrastato dai solchi di “Memento Mori” è che, in definitiva, si abbia tra le mani un album spassionatamente "pop", nell’accezione più elegante e virtuosa del termine. Certo, non mancano le tipiche nature di profondità, di ricerca sonora, di oscura attrazione, ma l’ascolto di tutta la tracklist si distende in grande scioltezza, con la voglia di ridare subito un secondo play alla maggior parte dei contenuti gustati, senza rilevare la presenza di quei forzati orpelli che avevano demarcato alcune fasi dei più recenti lavori, più precisamente quelli successivi all’eccellente Playing The Angel.

I due singoli promozionali, “Ghosts Again” e “My Cosmos Is Mine”, regalano emozioni differenti: il primo è un brano spontaneo, che ondeggia tra malinconia e speranza, con suoni che, miscelando amabilmente chitarre e sintetizzatori, scortano un testo che azzarda di fornire alcune chiavi per assimilare il sentimento della perdita; il secondo, un inno di protesta impenetrabile ed enigmatico che farà felici i seguaci della prima ora, è un’occasione in cui il rinomato synth-pop dei Depeche Mode si pregia di richiamare alcune delle fasi industrial che il gruppo aveva diffusamente praticato a metà anni 80: grande intuizione.

La Düsseldorf kraftwerkiana - una piacevole costante incontrata lungo quasi tutto il disco - si palesa incontrastata sulla pelle di “Wagging Tongue”, scritta a quattro mani da Gore e Gahan e ancor di più nella corposa “People Are Good”, che nel suo organismo puramente elettronico funge quasi da omaggio alla celebre “Computer World” scritta proprio da Ralf Hütter e Florian Schneider.

Non sarò stato l’unico che nel leggere il titolo del brano numero quattro, “Don’t Say You Love Me”, è tornato al passato e precisamente al refrain di “It’s No Good”, una delle gemme che aveva impreziosito il monumentale “Ultra”: niente di più diverso all’orizzonte. Il brano composto da Gore e Butler è epico, quasi sacro: “You’ll be the killer/ I’ll be the corpse/ You’ll be the thriller/ And I’ll be the drama, of course”. Sono parole che fanno tornare prepotentemente in vita l’animo oscuro dei Depeche Mode, con un’eleganza rinnovata.

“My Favourite Stranger” è lo stargate piazzato per ricordare la storia dei Depeche Mode, un pezzo impuro, aguzzo, che se fosse stato inserito in Black Celebration o “Some Great Reward” non avrebbe certamente sfigurato.

La quota da interprete solista che Gore eroga in ogni album è qui rappresentata da “Soul With Me”, una ballata melliflua atipica, fissata sul concetto di mortalità, con un ritornello intonato quasi da consumato crooner, uno degli episodi più intriganti tra tutti quelli esposti.
Un piccolo gioiello è invece “Caroline’s Monkey”, canzone sul tema droga che cresce con carismatica progressione, dotata di un ritornello irreprensibile e ben incastonato sul coinvolgente tessuto elettronico.

Tra i passaggi salienti dell’intero album si staglia prepotente “Before We Drown”, scritta da Gahan e costruita con grande sapienza dal duo Eigner-Gordeno. Dave eleva il suo inconfondibile timbro vocale, coadiuvato dai cori di Gore (una scelta frequente, tra le più azzeccate dell’intera opera), su crescenti contorsioni strumentali mai banali. Enorme è l’apertura sonora che si predispone al termine dell’inciso, la si avverte quasi fisiologica e appagante.

Un lampo nel cielo plumbeo è l’onirico midtempo di “Always You”, che scorta un'altra freccia a disposizione, tra le più appuntite della faretra. “Never Let Go” è scritta da Gore ed è adornata con echi dei vecchi Depeche Mode, qui proiettati verso un crescendo strumentale che trova nelle note di chitarra un compagno particolarmente in palla, senza ignorare l’asciutta coda simil-noise anni 90.

Il viaggio si chiude con intensità. In “Speak To Me” emerge il grande lavoro apportato dal team Ford, Eigner, Salogni, Rossi, che su un componimento elaborato dallo stesso Gahan inserisce un maestoso corpo di suoni crescenti nell’anima, col preventivo di esplodere in modo deflagrante.

I Depeche Mode non decadono mai, ci provano (per primi addirittura dall’interno), ma non sembra esistere qualcosa che possa annientarli definitivamente.
Andy sarà entusiasta di vedere dall’alto i suoi amici in grado di reggere l’urto anche questa volta, nonostante tutto.

Forza Martin, forza Dave, non mollate, perché c’è ancora tanto bisogno di voi.

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