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18/10/2023

Pearl Jam, i 30 anni di "Vs"

L’ultima cosa a cui pensarono fu il nome. Per un attimo valutarono di chiamare il loro secondo album semplicemente come loro: “Pearl Jam”. In fondo, dopo aver smaltito la sbornia del successo interplanetario, satura di tutti i giochi aziendali che ruotavano attorno alla sua fama, la band di Seattle cercava soltanto di riottenere la propria autonomia artistica. Svincolarsi, dunque, da tutte le pressioni esterne, dall’esigenza di dover stare costantemente sotto i riflettori in una promozione ininterrotta della propria musica. E ancora liberarsi dal contesto mediatico che la stava imprigionando nel calderone grunge creando vere o presunte rivalità con altri attori della stessa scena.

Il secondo album nasce in questo momento di impellente e assoluto bisogno di affrancamento. Lo stratosferico disco d’esordio era stata una valanga che avrebbe potuto travolgerli e consumarli in breve tempo. “Vs” è stato in un certo senso il pilastro su cui hanno fondato le basi per la carriera longeva e appagante che effettivamente hanno avuto. Forse stilisticamente inferiore al successivo “Vitalogy”, il secondogenito della band di Seattle si presenta ruvido, sporco e arrabbiato, più vicino per musicalità al background hard rock da cui sono partiti (Green River, Temple Of The Dog). In una spericolata manovra contromano, il quintetto americano recupera l’irruenza giovanile e la preserva da ogni forma di contenimento o ritocco per sottrazione da post-produzione (ottimo, in questo senso, il lavoro del produttore Brendan O'Brien). Il suono rimbombante dell’iniziale “Go” sembra essere stato registrato in uno scantinato di periferia. Nei primi trenta secondi le percussioni sono assolutamente predominanti e le chitarre ronzanti sembrano quasi in lontananza. Poi David Abbruzzese lancia il segnale: uno “sbam” micidiale alla batteria che imbecca tutti gli altri strumenti. Fra riff di chitarra e assoli indimenticabili, “Go” rende praticamente impossibile un ascolto quieto e senza movimento. Scelto come singolo iniziale, il brano, è un incipit strabordante che lancerà l’album verso cifre di vendita straordinarie: quasi un milione di copie nella sola prima settimana.

Da un verso della canzone successiva, “Animal”, il quintetto prende spunto per trovare il nome definitivo dell’album. Basandosi sul testo, avrebbe potuto chiamarsi ancora più esplicitamente “5 VS 1” (opzione effettivamente presa in considerazione dalla band). In quel periodo i Pearl Jam si lanciarono davvero in una lunga serie di battaglie apparentemente donchisciottesche, tanto erano controcorrente. Scelsero di non produrre alcun video per Mtv e di opporsi strenuamente allo strapotere di Ticketmaster, che addebitava cifre, a loro parere, spropositate per costi di servizio. Non esitarono a scegliere le location più insolite, pur di superare gli ostacoli legati ai diritti del colosso della vendita di biglietti. Queste guerre potenzialmente deleterie dal punto di vista economico, si rivelarono, al contrario, vincenti dal punto di vista comunicativo. Non  a caso, ancora oggi molti fan considerano il gruppo uno straordinario esempio di integrità morale e dedizione verso la musica e verso il suo pubblico. D’altronde, è innegabile che il gruppo di Seattle sia riuscito a costruirsi nel tempo una solida reputazione attraverso un approccio empatico e diretto: sul palco, per energia e incisività, i Pearl Jam sono probabilmente  una delle rock band più iconiche degli ultimi decenni.

La rabbia è sicuramente il sentimento che meglio caratterizza le liriche di tutti i brani. Anche una traccia come “Daughter”, lenta e malinconica, ha come tema una battaglia interiore. Si tratta in questo caso di una ragazza con disturbi dell’apprendimento non diagnosticati, che si sente sola e incapace di raggiungere le aspettative della madre

Alone, listless
Breakfast table in an otherwise empty room
Young girl, violence
Center of her own attention
The mother reads aloud, child tries to understand it
Tries to make her proud
The shades go down, it's in her head
Painted room, can't deny there's something wrong

Inevitabile pensare a “Jeremy” e “Why Go”, monumenti in versi sulle problematiche adolescenziali che effettivamente non si discostano molto neanche a livello musicale.

Non occorre, invece, rifugiarsi nei testi per comprendere la forza che sospinge tracce come “Leash” e “Blood”. La prima, con la sua dinamica veloce e l’indimenticabile assolo di chitarra, è diventata ben presto una delle canzoni più iconiche dell’album; la seconda segna uno dei momenti dai ritmi più forsennati che abbiano mai scritto. Non ci sono scorciatoie melodiche o hook accattivanti: Eddie Vedder canta a squarciagola e la sezione ritmica è straripante. Le chitarre mordono il freno solo per un po’, trattenute da brevi intermezzi sincopati. Quando vengono finalmente liberate e si lanciano in picchiata nell’incalzante finale atterrano su un durissimo tappeto sonoro alla vecchia maniera (vengono in mente gli Who soprattutto).

Un taglio più grunge è dato alle numerose canzoni di denuncia sociale presenti in “VS”. “Glorified G” è un brano contro la proliferazione delle armi in territorio americano, “Rats” si rivolge ai dirigenti senza scrupoli che detengono le leve del potere, in “W.M.A.” dei tamburi tribali accompagnano per tutto il tempo il vocalist che accusa membri di istituzioni, come la polizia, di violenze verso gli afro-americani. Quest’ultima, anche per le sue atmosfere funk, si può considerare una precorritrice dell’atteggiamento di apertura verso sonorità musicali eterogenee che la band dimostrerà nei successivi lavori.

Da “Vs”, furono estratti quattro singoli: oltre alle tracce già citate “Go”, “Animal” e “Daughter”, venne scelta anche “Dissident”, classica ballata non particolarmente brillante ma carica di emotività.  In questo filone è molto più degna di attenzione la struggente “Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town”, che con il suo arrangiamento delicato e malinconico esalta le doti vocali di Eddie Vedder e anticipa lo stile che il frontman utilizzerà largamente nelle sue incursioni soliste. Si tratta senz’altro di una delle canzoni più famose del repertorio, resa celebre anche dal lunghissimo e insolito titolo. Molto nota e frequentemente proposta nelle scalette dei concerti è anche “Rearviewmirror” (uno dei loro "best of" è stato battezzato allo stesso modo). Quando Vedder attacca il ritornello arioso e energico difficilmente il pubblico lo lascia cantare da solo.

Saw things, saw things
Saw things, saw things clearer, clearer
Once you were in my rear-view mirror
I gathered speed from you fucking with me
Once and for all, I'm far away
Hard to believe, finally the shades are raised

Nel finale, c’è tempo anche per un’incursione nelle nebbie psichedeliche e ovattate di “Indifference”. Un toccante giro di basso e lampi in lontananza di chitarre accompagnano il viaggio verso l’inferno del vocalist. La rabbia lentamente si dirada e lascia spazio a un sentimento di dolore puro. Caratterizzata da un lirismo estremo, a differenza delle altre tracce più dirette e sfrontate, “Indifference” scioglie finalmente ogni conflitto. La batteria di Abbruzzese c’è ancora, ma quasi non si percepisce più. Si può ancora urlare ma che differenza fa? ("I will scream my lungs out till it fills this room/ How much difference does it make?").

Con questa domanda ripetuta come una litania si chiude un album che ha tracciato un solco indelebile nella discografia dei Pearl Jam. Adorato e tenuto in conto come un oggetto sacro dai fan della band, “Vs” nasconde le qualità migliori del gruppo di Washington: la capacità di far confluire la rabbia inquieta e spaesata della propria generazione in un prodotto che nasconde anche alcune delle loro più riuscite melodie. Apparentemente divergente da tutti i loro lavori successivi ma allo stesso tempo traboccante di canzoni universalmente riconosciute come le più rappresentative del loro repertorio, “Vs” racchiude elementi apparentemente inconciliabili. Un rock fuori moda con idee musicali nel solco della tradizione, ma che risulterebbe maestoso e strabordante quand'anche uscisse oggi.

Lusingati e vezzeggiati ma all’interno di una gabbia, i Pearl Jam si sentivano come la pecora in copertina di “Vs”. Solo poche settimane prima veniva dato alle stampe “In Utero”, testamento spirituale dei coetanei Nirvana che da quelle sbarre non riuscirono a uscire. Certamente, verrà il tempo anche per Eddie Vedder e compagni di ritornare con piacere all’ovile. Con il peso dell’esperienza e con qualche idea brillante in meno, sarà più conveniente sfruttare la loro storia proponendo innumerevoli ristampe e collezioni. Eppure, lo slancio genuino che portò una band a pubblicare un album così schietto e fuori da ogni strategia commerciale rivelò che dell’ovino conservavano anche la proverbiale purezza. Dell’incredibile triade di album pubblicate dai Pearl Jam nel primo lustro di carriera, “Vs” , se non il più bello, è senz’altro il più coraggioso.

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