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18/06/2014

Il Mondiale lo vince… la FIFA

di Gabriel Díaz (Brecha)

Nel 2007 i brasiliani celebrarono estasiati la buona novella. I prossimi anfitrioni della gran festa del calcio mondiale sarebbero stati i padroni del pallone, seguiti da un pubblico euforico. Ma il tempo è passato e l’euforia si è spenta.

La prepotenza della FIFA è venuta ancora una volta alla luce, mentre il governo federale ha eseguito senza fare scherzi gli ordini dei veri padroni della festa. I brasiliani si sentono truffati e si ribellano di fronte al più blindato di tutti i mondiali. Quando vennero inventati i confini dei Paesi di questa regione ognuno di essi creò il suo proprio corredo di simbologie nazionaliste: un eroe liberatore, una bandiera, un inno e molti quadri dettero consistenza concreta alla finzione. In Brasile no. Non ci furono grandi battaglie, né liberatori idolatrati. La principessa Isabel, reggente dell’impero, andò in esilio quando i militari presero il potere, poco dopo la firma della “legge aurea” che abolì la schiavitù nel 1888. La nazione, guidata da patrizi e grandi latifondisti, si sentì orfana per decenni di quell’imprescindibile narrazione storica. Con l’autostima a terra, come raccontava nelle sue cronache il giornalista Nelson Rodríguez, il Brasile dovette aspettare fino al 1958 perché emergesse l’“eroe” tanto sospirato: il calcio.

Dopo il fallimento del 1950, il trionfo al Mondiale di Svezia dette un senso alla nobiltà “brasiliana”. Ma ci fu il paradosso che i principali protagonisti della grande battaglia, tra i quali Didí, soprannominato il Principe Etiope, e il novellino Pelé, erano neri, facevano parte dei milioni di nipoti di schiavi, poveri e analfabeti. Nonostante ciò, la vittoria fu salutata da una grande ovazione in tutto il Paese, e da quel momento in poi il calcio, capitanato da eroi neri in un Paese che si riconosce razzista, sarebbe stato fonte di emozione e di fervore nazionalista.

Si dia inizio alla festa

In primo piano nella foto c’erano il presidente Inácio Lula da Silva e l’ex calciatore e oggi deputato Romario de Souza. L’immagine di entrambi insieme al presidente della FIFA, Joseph Blatter, e alla scintillante coppa dorata, fece il giro del pianeta nel 2007, quando il Brasile fu designato sede del Mondiale 2014. I brasiliani accolsero la notizia con gioia. La povertà si riduceva progressivamente e il presidente Lula godeva di una vasta popolarità. Il governo assicurò che l’investimento negli stadi sarebbe stato privato e che le opere del Mondiale (in trasporti e infrastrutture) sarebbero andate in eredità al Paese.

La FIFA mise sul tavolo le sue esigenze. Sia l’Associazione che i suoi sponsor, tra i quali McDonald’s e la Coca-Cola, non avrebbero pagato tasse per 12 mesi. Così dispone la cosiddetta “legge FIFA”, firmata dalla presidentessa Dilma Rousseff. In sintesi, l’organizzazione che dirige il calcio si prefisse l’obiettivo di ricavare in Brasile la cifra record di 3 miliardi e mezzo di dollari, dopo la frustrazione rappresentata dal Sudafrica nel 2010. Con il passare del tempo, Romario, deputato per il Partito Socialista Brasiliano ed ex alleato di Lula, diventò una delle voci più critiche quando si venne a sapere dei milioni di reais che sarebbero usciti dalla Banca Nazionale per lo Sviluppo Economico e Sociale (BNDES, statale) per finanziare il 98% delle spese del Mondiale. Oltre a denunciare la corruzione politica interna, il baijinho apostrofò Blatter come “ladro, mafioso e figlio di puttana”.

Il gioco sporco

Le posizioni di Romario sono state rafforzate dall’ex reporter della BBC Andrew Jenning, che investiga da 20 anni sui burrascosi guadagni della FIFA. Nel suo libro Un gioco sempre più sporco, Jenning svelò un complesso tessuto di affari illegali che coinvolgevano ex dirigenti del calcio brasiliano, come Ricardo Teixeira e João Havelange, e dirigenti della FIFA come Blatter e il segretario generale Jerome Vlacke. In un’intervista rilasciata al portale Agencia Pública il giornalista britannico avverte senza giri di parole i brasiliani: “la FIFA vi sta rapinando”, e mette in evidenza il business della vendita dei biglietti e dell’affitto di camere negli hotel, oltre che i lussuosi saloni vip costruiti negli stadi (pagati dalla BNDES), dove la FIFA riunisce la “crema” del mondo degli affari a prezzi astronomici. Senza trascurare, com’è ovvio, i profitti ottenuti dalla vendita dei diritti televisivi. In totale, lo Stato brasiliano pagherà 10 miliardi e 900 milioni di dollari per questo campionato di carattere privato, mentre gli affari della FIFA e dei suoi sponsor saranno esentasse. Il Paese ospiterà circa 600 mila stranieri, e la grande incognita è quanto rimarrà nelle casse statali di tutti i soldi che gireranno. Intanto si sa già che molti degli stadi diventeranno “elefanti bianchi”, perché sono stati costruiti in città dove la passione per il calcio è meno sentita, come Brasilia e Manaus.

Quando le cifre sono diventate di dominio pubblico, il popolo brasiliano è sceso in piazza per protestare contro il Mondiale e pretendere miglioramenti nell’assistenza sanitaria, nell’educazione e il trasporto pubblico. Questo malcontento popolare si è rafforzato quando i dirigenti della FIFA, nelle loro visite ufficiali, hanno alzato la voce contro gli inconvenienti e i problemi logistici legati al Mondiale e hanno preteso più efficienza dal governo. I ritardi e gli aggiustamenti dell’ultimo momento, come per qualsiasi casa in costruzione, hanno fatto schizzare alle stelle le spese. Il governo ossequia la FIFA (Blatter viene trattato come un capo di Stato), anche se inaugurerà l’evento nell’Arena Corinthians, a San Paolo, senza aver terminato i lavori, così come accadrà in alcuni aeroporti, per esempio quello di Río de Janeiro, denuncia Jenning.

La demoralizzazione dei carioca verso il Mondiale spiega l’assenza di cartelloni luminosi e opere d’arte allegoriche a Brasile 2014 e perfino della stessa canzone del Mondiale, che da queste parti non si conosce nemmeno. Al contrario, non si è esitato a far scendere in campo l’ostentazione poliziesca e militare.

Cartellino giallo

Giorni fa le autorità hanno annunciato che in totale saranno 20 mila gli agenti di sicurezza che vigileranno ogni giorno per le strade di Río, città che accoglierà 400 mila visitatori. La maggioranza si concentrerà nella zona sud, turistica per eccellenza. Prima che si sapesse questa notizia, Amnesty International Brasile lanciava la campagna globale “Mostra il cartellino giallo” al governo, perché non si ripetessero gli abusi verificatisi nelle manifestazioni di massa del 2013. Questa espressione civica è stata la più importante della storia recente del Brasile e ha mostrato, come conferma Renata Renán, consulente dell’associazione umanitaria, l’inesperienza della Polizia Militare del Brasile, un corpo creato sotto l’impero e i cui membri ricevono una formazione militare. Nel giugno del 2013, durante una delle manifestazioni, un fotografo paulista fu raggiunto da una pallottola di gomma e perse un occhio. Anche molti altri rimasero feriti gravemente. “Lanciarono gas lacrimogeni in posti chiusi, come la metro, bar e perfino ospedali”, racconta la Renán a Brecha. Nonostante questo, nessun poliziotto è stato inquisito né indagato per gli abusi commessi. “Se si commettono reati sia da parte della Polizia Militare che di gruppi violenti, questi devono essere debitamente giudicati. Noi siamo contrari alla violenza, ma difenderemo sempre il diritto dei cittadini a manifestare pacificamente”, ha dichiarato la Renán.

Secondo uno studio recente di AI, otto brasiliani su dieci assicurano di aver paura di essere torturati dalla Polizia Militare. L’associazione chiede un dibattito sulla smilitarizzazione della polizia, e la creazione di rapporti tra i cittadini e chi dovrebbe vigilare sul loro benessere.

In mezzo alla strada

Nel primo trimestre di quest’anno sono stati commessi a Río de Janeiro 1.459 omicidi, quasi la stessa cifra del 2008, quando si misero in azione le unità della Polizia Pacificatrice. Da allora la cifra di morti violente era calata sistematicamente, ma quest’anno è noto che c’è stata una recrudescenza. Intervistata sulla causa di questo incremento, Raquel Willadino, componente dell’Osservatorio delle Favelas di Maré (un complesso di 16 comunità situate al nord di Rio), risponde che negli ultimi mesi si è registrato un cambiamento - in peggio - nei rapporti tra gli abitanti delle favelas e le unità pacificatrici.

Maré, abitata da circa 130 mila persone, si trova in un punto strategico tra l’aeroporto internazionale di Río e la città. L’attraversa la Avenida Brasil, una delle principali vie di circolazione della capitale carioca. A seguito di un decreto firmato dalla presidentessa, il complesso è stato occupato da circa 2mila militari delle forze armate. Questa occupazione ha un “carattere eccezionale” e sarà in vigore fino alla fine di luglio, quando terminerà il Mondiale. “La presenza delle forze armate è molto significativa, sono uomini addestrati per la guerra. Bisogna rompere questa logica”, dice la Renán. Dopo l’evento, i carri armati e i militari saranno sostituiti da unità della Polizia Pacificatrice. Le diverse comunità, insieme alle organizzazioni che lavorano in questa zona, come l’Osservatorio delle Reti di Maré, ritengono che anche gli abitanti delle favelas abbiano il diritto di godere della sicurezza. Un giovane nero della periferia o delle favelas “ha quattro volte più probabilità di morire di morte violenta di un bianco. La popolazione è vista come parte del problema e non della soluzione. Questo deve cambiare. Solo lavorando in modo organico si potrà trovare un’uscita dalla violenza”, sottolinea la rappresentante di Amnesty International.

Articolo originale.

Traduzione per Senzasoste Andrea Grillo, 13 giugno 2014

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