di Alessandro Iacuelli
Ci sono in
Italia 5000 piccoli borghi al di sotto dei 5000 abitanti. Di questi, due
terzi sono collocati lungo la dorsale appenninica e c'è chi ha scelto
di viverci. Chi perché ci è nato, chi perché era emigrato e dopo anni è
tornato a casa, chi perché ha scelto di allontanarsi da città sempre più
congestionate, sovraffollate e invivibili. Questi borghi stanno
scomparendo, sotto i colpi di una “modernizzazione”, di uno “sviluppo”
che va in una direzione imposta e non condivisa.
A colpi
successivi, governi ed enti locali li stanno spopolando, forzando la
migrazione verso le squallide periferie delle grandi città.
Progressivamente nel tempo, si delocalizza la scuola che c'era nel
piccolo borgo, un'altra volta si chiude l'ospedale che serviva 10 o 20
di questi piccoli centri, e la carenza di servizi forza gli abitanti a
migrare verso le grandi aree urbane.
E' un piano studiato a tavolino di spopolamento delle zone interne
dell'Appenino, soprattutto quello centrale e meridionale, che rischia di
sconvolgere la stessa geografia dell'Italia. Spostare sì, ma a quale
scopo?
Anche se il mondo della politica non lo dice, appare fin
troppo chiara una scientifica pianificazione di una nuova
riorganizzazione del territorio della penisola. Le aree interne, secondo
le intenzioni di chi ha governato e governa, trasversalmente all'arco
costituzionale, vanno riusate a nuovi scopi non abitativi.
Così, dopo la Basilicata, è il turno dell'Irpinia di essere al centro
di una nuova campagna di trivellazioni petrolifere nelle valli e sulle
montagne. Pazienza se si va ad insistere su una zona dove si preleva
acqua che va a dissetare un bacino di sei milioni di persone, il 10%
degli italiani.
Contemporaneamente, dalle Marche e dall'alto
Lazio fino alla stessa Irpinia, è tutto un fiorire di progetti di
centrali elettriche, il più delle volte a gas, o ad incenerimento di
rifiuti prodotti altrove, che vanno poi allacciate alla rete elettrica
nazionale mediante elettrodotti ad alta tensione che sconvolgono il
territorio, distruggono ed eliminano aree destinate all'agricoltura o
all'allevamento, portano inquinamento elettromagnetico elevato in borghi
medievali di 2000 abitanti, che fino a ieri non sapevano neanche cosa
fosse l'inquinamento.
Ancora, come se non bastasse, i territori diventano destinatari di
progetti di smaltimento dei rifiuti delle grandi città, dalle
discariche, fino alle piattaforme per far sparire dalla vista i rifiuti
industriali pericolosi.
Per
rendere realtà questo progetto di “modernizzazione” del Paese c'è un
impedimento da superare: l'esistenza dei cittadini, visti sempre più
come il peggiore ostacolo per una democrazia moderna. Pertanto,
funzionale al grande progetto, è necessario forzare lo spopolamento,
l'abbandono dei piccoli centri.
Certo, non si può deportare la
popolazione con la forza, quindi la strategia adottata è quella di far
sparire i servizi. Eliminare istruzione, sanità, uffici pubblici, negozi
e centri commerciali, fabbriche e attività economiche e, quando la
popolazione locale scende oltre un certo limite, viene rimosso anche il
medico di base; il tutto per fare in modo che la gente decida da sé di
andarsene altrove, togliendo il disturbo.
La terra e la gente dei
piccoli paesi delle aree interne meridionali, dall’Irpinia al
Salernitano, dalla Puglia alla Lucania, sono sotto attacco. I vecchi
emigranti che erano ritornati vedono i figli e i nipoti fare le valige e
abbandonare un territorio dove lo stato sociale e i servizi essenziali
non sono più garantiti.
Mentre scompaiono presìdi scolastici e sanitari, piccoli tribunali e
uffici postali, azzerando in pochi anni le conquiste ottenute dal
dopoguerra, procede, di pari passo, l’aggressione a un territorio il cui
destino sembra lo spopolamento e il degrado.
Terra, aria, acqua
sono a rischio o già compromesse: discariche abusive e sversamenti
diffusi, esplorazioni petrolifere in aree sismiche e ricche d’acqua,
eolico selvaggio ed elettrodotti, aree di ricarica dei bacini idrici a
rischio, depuratori inesistenti, emissioni fuori norma nei nuclei
industriali, impianti a biomassa che successivamente diventano
inceneritori e molto altro.
Da qualche tempo, gli abitanti di
questi piccoli centri, soprattutto in Campania, hanno iniziato a
dialogare tra di loro, da Torrita Tiberina a Castelvetere sul Calore,
dando vita ad un “forum ambientale” dell'Appennino, dove mettono in comune le proprie
esperienze e assieme concertano iniziative di resistenza.
E'
un movimento in crescita: ad ogni incontro il numero di partecipanti
aumenta. Non per coscienza politica o ambientale, quella magari verrà
dopo, ma per paura. Paura delle grandi aziende che gli rubano la terra e
mettono centrali, inceneritori, impianti a biomassa che poi diventano
chissà cosa.
Paura di cosa c’è nell’acqua che bevono e fanno bere ai loro figli,
delle microdiscariche vicino casa e dell’amianto che altri vanno a
scaricare, paura degli elettrodotti che passeranno, di quelli che già ci
sono e di tanto altro ancora.
Da questa paura, che si trasforma
in partecipazione, sta nascendo un centro studi, una serie di
iniziative sia di pressione politica, a tutti i livelli, sia di
informazione verso la popolazione. L'obiettivo dichiarato è quello di
spingere verso una revisione delle politiche territoriali, per rendere
l'Appennino territorio di una nuova forma di sviluppo: dalla piccola
agricoltura, al ripristino delle forme di allevamento, fino al turismo
paesaggistico, il tutto condito dal recupero dei vecchi borghi storici e
del riabitarli.
Un movimento dal basso di cui seguire progressi
ed evoluzioni. Una speranza, per la bellezza dell'Appennino, la cui
unica possibilità di resistere sta nel passare dalla rassegnazione alla
consapevolezza e poi all’azione politica.
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