La Turchia delle mille ambizioni e dei mille e cento
problemi non vive ancora la fibrillazione delle presidenziali, previste il 10
agosto con eventuale ballottaggio il 24, vede comunque avvicinarsi le scadenze di quell’appuntamento
denso di significati. Dal 29 giugno al 3 luglio sarà aperta la registrazione dei
candidati; quella scontatissima del premier uscente Erdoğan verrà anticipata da
un meeting che l’Akp terrà martedì 1° luglio con la presenza di propri ministri
dell’Esecutivo, esperti in diritto, membri della direzione del partito e
delegati locali. Finora l’unico candidato ufficioso, e presto anch’egli ufficiale,
è l’accademico, diplomatico e già capo
dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica Ekmeleddin İhsanoğlu, presentato
dieci giorni fa dai principali gruppi d’opposizione: i repubblicani del Chp e i
nazionalisti del Mhp. Il partito filo kurdo della Pace e della Democrazia è in
surplace sull’ipotesi di proporre o meno un suo uomo alla corsa per la
prestigiosa carica. Lo staff erdoğaniano spererebbe di no e in questa fase ha lanciato pressanti avances verso questa
e altre componenti (Great Union Party e Saadet Partisi) con l’esplicito intento
di raccoglierne i voti.
Non solo riguardo a un’elezione al primo turno che
eviterebbe le insidie d’un ballottaggio politicizzatissimo, ma soprattutto per
ricavarne il sostegno – ovviamente patteggiato finanche a punti e virgole – per
un accordo sull’annosa questione kurda. Nel merito il programma del governo già
prevede all’inizio del mese di luglio l’avvio d’un dibattito parlamentare teso
ad attenuare le misure repressive verso il Partito dei lavoratori
kurdi, attualmente fuorilegge, che coinvolge soprattutto i giovanissimi
militanti spesso responsabili di scontri e i detenuti politici malati. Il
dialogo è aperto con Bdp e Hdp, quest’ultimo ha avanzato la richiesta
federalista, ma essa non sembra inclusa nel pacchetto in discussione e ciò crea
un bell’ostacolo. L’approccio governativo trova la ferma opposizione del
kemalismo più oltranzista dei nazionalisti e di quello di sponda repubblicana,
coralmente uniti nel rifiuto di qualsiasi colloquio con esponenti come il
leader detenuto Öcalan (con cui gli incontri vanno avanti da due anni) e altri
rappresentanti del Pkk tacciati di terrorismo.
Idee che girano anche fra un certo
conservatorismo islamico, che però vedono il premier impegnato in
un pragmatico realismo per ottenere l’appoggio necessario a una trasformazione
dello Stato in Repubblica presidenziale. Un via libera che mai giungerà da Bahçeli
e Kılıçdaroğlu. Perciò i
consiglieri
del sultano, temendo che la conferma delle amministrative del marzo
scorso con
oltre il 43% delle preferenze possa non bastare a raggiungere
l’obiettivo da
lui inseguìto da tempo, insistono nel formalizzare l’accordo. Il
problema è cosa e quanto concedere alle richieste
kurde senza perdere il consenso identitario dell’elettorato islamico.
Erdoğan sta anche provando ad aumentare le personali percentuali
fra i turchi d’Europa che voteranno all’estero. Ha compiuto viaggi e
incontri
pubblici in Germania, Austria e Francia, ma non venendo meno allo stile e
all’indole ha inevitabilmente sollevato polemiche quando negli
interventi ha
criticato i Paesi che l’ospitavano (e dove vivono i propri concittadini)
sulla
politica estera della Ue riguardo alle vicende siriane o egiziane. Così
le sue recenti
apparizioni europee hanno polarizzato le piazze proprio come nelle
metropoli di
casa.
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