di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Mosul è libera, il
«califfo» è morto: apparentemente è giornata di buone notizie per la
polveriera siro-irachena. Ma dietro ai titoli dei giornali c’è il buco
nero in cui Baghdad è risucchiata da 15 anni.
Ieri la stampa irachena riprendeva la notizia di Alsumaria News:
lo Stato Islamico (nello specifico la sezione di Diyala, provincia
occidentale irachena) avrebbe ammesso la morte di Abu Bakr al Baghdadi,
invitando i propri uomini a continuare la lotta. Conferme
giungerebbero anche da Tal Afar: fonti della leadership ammettono
l’uccisione del leader ma non dicono in quale occasione. E aggiungono:
Daesh sta lavorando all’individuazione del successore. Non senza faide
interne tra le anime del «califfato».
Da individuare ci sarà anche la nuova strategia militare e politica
dell’Isis, colpito dalla graduale perdita di territorio ma ancora in
grado di operare sia in termini di reclutamento che di guerriglia
terroristica. Al momento, oltre a Raqqa, la battaglia più dura è quella
di Tal Afar dove l’Isis in fuga da Mosul ha trasferito leadership e
struttura amministrativa.
Fuori premono le milizie sciite legate a Teheran, facendo immaginare un nuovo crudo scontro. La
città, a metà tra la Siria e Mosul, è a maggioranza turkmena (da cui i
tentativi turchi di imporre un intervento), minoranza che non nasconde
il timore di abusi da parte sciita. Per questo le milizie sciite hanno accettato di non entrare a Tal Afar e lasciare il passo all’esercito.
Un simile clima è specchio del caos che è oggi il puzzle
iracheno. Le paure della minoranza turkmena sono le stesse di quella,
più consistente, sunnita. Ieri Amnesty International ha dato un primo
quadro della situazione a Mosul nel rapporto «Ad ogni costo»:
attraverso decine di interviste ai civili, accusa sia l’Isis che la
coalizione anti-Isis di violazioni del diritto internazionale.
Daesh ha usato i residenti di Mosul ovest come scudi umani, li ha
costretti a spostarsi da una comunità all’altra per utilizzarli come
estrema difesa alla controffensiva governativa e gli ha impedito – con
cecchini e mine – di scappare. Dall’altra parte le forze
statunitensi e britanniche, così come quelle governative irachene e le
unità peshmerga (un totale di 100mila uomini), non hanno preso misure
adeguate per tutelare la vita dei civili, usando armi pesanti in zone
densamente popolate e modificando di pochissimo la strategia militare nonostante le caratteristiche della città vecchia di Mosul.
Il caso più eclatante è quello ammesso dal comando Usa in Iraq:
almeno 200 morti nel bombardamento di alcuni edifici, lo scorso 17
marzo. Di numeri precisi non ce ne sono. Prova a dare un
bilancio, incrociando i dati del posto con quelli ufficiali della
coalizione, l’ong Airwars: da febbraio (quando la battaglia per Mosul
ovest è partita) sarebbero 3.700 le vittime dell’offensiva.
Un numero sottostimato e a cui vanno aggiunti le centinaia, forse
migliaia, di civili uccisi dall’Isis. «Gli orrori vissuti dalla gente di
Mosul e il disprezzo per la vita umana da parte di ogni attore del
conflitto non deve restare impunito – dice Lynn Maalouf, direttrice di
Amnesty per il Medio Oriente – Intere famiglie sono state cancellate,
molti sono sepolti sotto le macerie. La gente di Mosul merita verità dal
proprio governo e giustizia».
Nessuna vendetta o punizione collettiva verso una comunità
che ha subito morte e deprivazione, che oggi per bocca degli sfollati
dice di non voler tornare nella città devastata.
Riconciliazione, assistenza e inclusione, unica via per rimettere
insieme i pezzi del puzzle iracheno prima che il paese scompaia ingoiato
dalle potenze esterne.
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