E’ una domanda che non si può più ignorare: l’anomalia Napoli è ormai al capolinea? Sono in molti a pensarlo tra quanti ne sono stati protagonisti, sia pure marginali e perciò fanno pesare il voto e alzano la posta per un consenso che non è leale. Ci sperano in tanti, soprattutto quanti hanno visto in questi anni i napoletani una minaccia per camarille e comitati d’affari che prosperano all’ombra delle maggiori forze dalla destra: il PD e Forza Italia.
Ci sono dati incontestabili che hanno conseguenze immediate – negarlo sarebbe inutile e controproducente – e si riassumono in una oggettiva e crescente difficoltà di dare risposta a bisogni che fanno capo a diritti costituzionalmente riconosciuti: la sanità pubblica praticamente cancellata, i tagli pesanti ai servizi sociali, i trasporti pubblici vicini al collasso, l’emergenza abitativa, la marginalità delle periferie. Sullo sfondo, gli elementi storici caratteristici della società senza diritti figlia del neoliberismo: lavoro nero, disoccupazione, sfruttamento selvaggio dell’uomo sull’uomo, precarizzazione della vita, crescita devastante del disagio mentale. In prospettiva, ma in tempi tutt’altro che lunghi, la cancellazione delle realtà produttive, la riduzione di fatto a realtà coloniale, in cui la metropoli diventa “città di consumi” e campo di battaglia di una guerra tra i poveri da cui vengono fuori solo sconfitti.
Tutto questo, però, che non chiama in causa l’Amministrazione della città, costretta a “fare le nozze con i fichi secchi”, ha naturalmente un “prima” e un “dopo”. A monte c’è l’Europa dell’ingiustizia sociale e del razzismo, con le regole imposte dal capitale e la riduzione a colonia dell’Italia e della Grecia, equivalenti a una sorta di Libia dell’Unione, area di parcheggio della disperazione che rompe gli argini. Anche qui, sullo sfondo, la gabbia di accordi paralizzanti: fiscal compact, pareggio di bilancio, patto di stabilità, armi che sanciscono una velenosa priorità dell’economia rispetto alla politica e costringono i governi nazionali a scaricare sugli Enti locali le conseguenze delle politiche di “austerità” e gli effetti dell’ingessatura dei bilanci. Renzi prima, Gentiloni poi, hanno utilizzato, come strumento bellico l’erogazione dei già miseri fondi, praticamente negati agli avversari politici.
Se questa è la situazione a monte, si capisce perché a valle l’Amministrazione di Napoli, gravata dall’ennesimo, pesantissimo debito, che non ha contratto ma deve saldare, diventa il bersaglio di mille proteste. Nei movimenti, l’obiettivo politico diventa sempre più quello di “far esplodere le contraddizioni da un punto di vista di classe”.
Così, per esempio, si è scelto di occupare Palazzo San Giacomo per il problema del disagio abitativo. In realtà, spazio per il confronto ce n’era, come hanno dimostrato l’incontro successivo e l’apertura di un tavolo di confronto. Resta il fatto che si è voluta rompere una prassi, negare un metodo, mettere da parte un patto non scritto. Una scelta che, di fatto, rischia di silurare quel “modello Napoli”, del quale i movimenti stessi sono stati coprotagonisti. Non c’è dubbio: la scelta è figlia di ragionamenti politici in linea con la storia e la tradizione dei movimenti. Produrrà risultati apprezzabili? E’ molto difficile che accada. Di certo c’è che intanto agevola il gioco di chi punta a liberarsi di un’Amministrazione che non si è allineata.
Esistono vie di uscita? Sostanzialmente ce n’è una sola, ma non può essere di tempo breve: quella che vede l’Amministrazione assediata tornare su posizioni di rottura e “disobbedienza”, legittimate dalla volontà di stare nei binari della Costituzione, che ha la netta prevalenza sulle leggi ordinarie, nonostante le gravi manomissioni al testo costituzionale volute da un Parlamento la cui legittimità è molto discutibile. Una via che richiede una maggioranza compatta, che ti segua e non ti lasci per strada. Se l’agitazione di piazza non diventerà una regola – un bersaglio ben più comprensibile c’è ed è la Regione – ci sarà tempo per mettere ordine, consolidare la maggioranza e sfidare gli eventuali opportunisti.
Intanto, uscire dalla realtà locale, guardarsi un po’ intorno e riflettere su ciò che accade non farà male a nessuno. Basterà fermarsi per un attimo sulla sorte di un giornalista, Marco Lillo, sottoposto a perquisizione domiciliare e al sequestro del cellulare. Il reato? Ha colpito il potere di Renzi e il suo familismo amorale. Chi aspetta il manganello e l’olio di ricino, per parlare di crisi della democrazia, invecchierà nell’attesa. Il fascismo moderato di Minniti è più che sufficiente a fare terra bruciata del dissenso, mentre una domanda è lì che si pone inascoltata e non trova risposta: a chi conviene massacrare la “città ribelle”?
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