Quel fiume di persone è stato molto più grande delle attese più rosee e delle previsioni più malevole (la questura locale aveva anticipato uno striminzitissimo “milleduecento”).
Certo, è ancora e comunque inferiore alle necessità, se si vuole cominciare a intravedere un’inversione di rotta nei rapporti di forza sociali e politici. Ma spazza via – speriamo in modo definitivo – quel sentiment diffuso tra i leoni da tastiera che vivono guardando la tv e sbirciando tra i giornali on line per poi sentenziare, sempre con le stesse frasi, “non c’è nessuno che si muove…”
Al di là dei numeri, però, conta la “composizione” e l’intenzione di quel corteo che – senza che nessuno l’avesse progettato esattamente in questo modo – ha messo insieme un mondo fin qui tenuto “compartimentato” in cortili separati, spesso litigiosi.
La molla è stata azionata da figure storiche ben inserite nel pantheon della classe operaia novecentesca, come i portuali. E’ stata potenziata da avanguardie dei metalmeccanici (Taranto, Trieste, la Gkn, ecc). Irrobustita da facchini della logistica “multietnica”. Accompagnata da una folla di studenti e giovani alle prese con la demolizione di scuola e università.
Ha raccolto la spinta dei territori devastati anche sul piano ambientale, sull’esempio dei No Tav e dei No Muos (mobilitati lo stesso giorno a Niscemi, in gemellaggio con Genova).
Ma il grosso è arrivato da tante altre figure che hanno trovato nella piattaforma della manifestazione, finalmente, una parola chiara e una prospettiva per opporsi realmente alla guerra e, insieme, all’impoverimento generale innescato dall’economia di guerra.
Interessi materiali, insomma, e visione ideale. Lotte su obiettivi concreti e capacità di traguardare obiettivi generali. Rivendicazioni pratiche e volontà di cambiare radicalmente “sistema”.
Non è senza significato il fatto che questa convergenza virtuosa sia avvenuta a partire da figure operaie “storiche” e sul tema che più di tutti riassume le contraddizioni del capitalismo in crisi: la guerra.
È una convergenza che indica una strada di ricostruzione dei rapporti di forza perché spinta da molle oggettive e potenti, certamente più grandi delle soggettività che se ne sono fatte interpreti.
Ma proprio il capire “la tendenza” aiuta a delineare la strada, uscendo da quella mortificante tenaglia che ha distrutto “la sinistra”: da un lato la querula invocazione dell’”unità” ridotta ad ingegneria delle liste elettorali e dall’altro l’impotenza assoluta nel conflitto sociale reale, delegato a sigle (la Cgil, su tutte) che da almeno un trentennio hanno dismesso questa funzione.
L’elemento nuovo che ha fatto emergere lo “spirito di Genova” è dunque la necessità oggettiva di praticare l’unità nel conflitto. Se si lotta contro un nemico mostruosamente forte – l’imperialismo “euro-atlantico”, a straripante egemonia Usa – non ci sono “orticelli” e “cortili” che tengano.
Come ci era capitato di scrivere qualche tempo fa,
“È insomma la necessità che costringe ad unirsi, non il fascino razionale dell’idea. E’ la necessità di esprimere una forza adeguata – sociale, organizzativa, numerica, analitica, ecc – che rende la tensione all’unità più “persuasiva” della chiusura nel proprio orticello.Coloro che interpreteranno in modo conseguente questo elemento saranno al centro della prossima stagione di conflitto politico, sindacale, sociale. In un certo qual modo anche sul versante elettorale, perché è davvero finita la triste epoca dei baracconi messi insieme alla brutto dio solo per speculare sui residui di elettorato “nostalgico”.
L’unità organizzativa, come ricordiamo ai tempi dei ‘consigli di fabbrica’, segue e non precede l’unità nel conflitto. È un risultato dell’azione, non un “appello” affidato ai buoni sentimenti.
Vale anche per ‘la sinistra’, o ciò che resta degli innumerevoli partiti e partitini comunisti.”
È finita l’epoca in cui si poteva credere di “far politica” muovendo solo le parole. Ora bisogna mettere in moto le gambe.
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