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19/10/2023

Le guerre non cadono dal cielo. “Onde lunghe e conflitti”

È possibile applicare la teoria delle ‘onde lunghe’ di Nikolaj Kondrat’ev (1892-1938) allo studio della periodicità dei conflitti militari? La risposta è affermativa: infatti, l’economista sovietico ha individuato una correlazione tra lo scoppio delle guerre e la periodizzazione basata su ‘onde lunghe’ di durata cinquantennale, la cui manifestazione empirica è costituita dalla coincidenza dei grandi conflitti militari con l’apice dei cicli lunghi, coincidenza in forza della quale tali conflitti si verificano a ridosso delle fasi di prosperità economica.

La coincidenza è comprovata sia dal ciclo delle guerre napoleoniche (1803-1815), sia dal ciclo delle guerre europee, in cui, fra l’altro, si inseriscono le guerre risorgimentali italiane (1853-1870), sia dal ciclo delle guerre imperialistiche (1904-1918). Anche qui l’opera di Mercurio si alterna a quella di Marte secondo una periodicità all’incirca cinquantennale.

Kondrat’ev ha spiegato, alla luce del marxismo, il rapporto di causa-effetto che intercorre fra l’economia e la guerra: «Le guerre non cadono dal cielo e non derivano dall’arbitrio di singole personalità... Nascono dal sostrato dei rapporti reali, specialmente economici... e si succedono con regolare periodicità e soltanto durante la fase di ascesa delle ‘onde lunghe’ perché trovano ragione nell’accelerazione del ritmo e nella tensione della vita economica, nella intensificata lotta per i mercati e per le fonti di materie prime» (N. Kondrat’ev, I cicli economici maggiori, Cappelli, Bologna 1981, p. 129).

Come mai, allora, la seconda guerra mondiale è scoppiata a ridosso degli effetti generati dalla ‘grande crisi’ del 1929? Non è stata in tal modo smentita sia la regola della periodicità cinquantennale delle ‘grandi guerre’ sia la regola della coincidenza con un periodo di prosperità economica (il periodo 1929-1939 era un periodo di prolungata depressione economica)?

La soluzione di questa aporia va ricercata nel cambiamento di paradigma e nella conseguente svolta del pensiero e della politica economica, il cui massimo esponente è stato, come è noto, John Maynard Keynes: il ciclo economico non è più concepito come un processo oggettivo immutabile, che può essere al massimo oggetto di previsione, ma come un processo che, in una certa misura, può essere modificato dall’intervento di una forza soggettiva (lo Stato) che è in grado, attraverso opportuni interventi (il più importante dei quali è la spesa pubblica in ‘deficit spending’), di modificarne il corso e di indirizzarlo in determinate direzioni (investimenti in grandi opere e, soprattutto, spesa pubblica militare).

Il governo statunitense e il presidente Roosevelt presero la palla al balzo e decisero nel 1941 di entrare in un conflitto già iniziato, creando anche il ‘casus belli’ (se è vero, come sembra, che Roosevelt ha fatto tutto il possibile affinché il Giappone bombardasse Pearl Harbor: cfr. R. B. Stinnet, Il giorno dell’inganno, il Saggiatore, Milano 2001).

L’ingresso degli Usa nella guerra poneva, quindi, fine alla regolarità semisecolare individuata da Kondrat’ev (fra la prima e la seconda guerra mondiale era passato, infatti, solo un quarto di secolo), anche se, come affermò un economista americano, la guerra poteva agire quale fattore di superamento della ‘grande crisi’ dando inizio alla “prosperità della quarta onda di Kondrat’ev”.

La terribile novità era, tuttavia, costituita dal fatto che le ‘grandi guerre’ si verificavano due volte nell’arco del ‘ciclo lungo’: una prima volta in coincidenza con il suo apice (‘grande guerra’ del tipo Kondrat’ev) e una seconda volta in coincidenza con la depressione economica (‘grande guerra’ del tipo Keynes), laddove il primo tipo era la conseguenza della crescente concorrenza provocata, nella lotta per l’accaparramento dei mercati e delle materie prime, dalla prosperità prolungata e il secondo tipo era l’effetto di una decisione presa dal potere esecutivo dello Stato per porre termine ad una depressione economica.

La storia insegna quale straordinario tributo di sangue (25.000.000 di caduti militari e 30.000.000 di morti civili) abbia pagato l’umanità per far ripartire la “quarta onda di Kondrat’ev”.

A questo punto, l’osservazione più importante che si può formulare è la seguente: malgrado le svolte che si sono prodotte nelle tecnologie e nelle tattiche militari, sempre più caratterizzate dalla logica della ‘mutua distruzione assicurata’ e, in ultimo, dall’asimmetria del conflitto con un ‘nemico invisibile’, gli eventi (in particolare quelli connessi alla guerra di tipo tradizionale che si svolge in Ucraina) sembrano confermare, con una notevole approssimazione, la regolarità individuata da Kondrat’ev, che permette di stabilire che una ‘grande guerra’ sarebbe scoppiata in coincidenza con l’apice della ‘quinta onda’.

Vale a dire tra la fine del primo decennio e l’inizio del secondo decennio del XXI secolo (previsione, questa, formulata sulla base della teoria delle “onde lunghe” dall’economista Giorgio Gattei, in un articolo del 2007 pubblicato dalla rivista “Giano”).

Sennonché un ulteriore rilievo che può essere mosso nei confronti della teoria dei cicli di Kondrat’ev riguarda il carattere deterministico di tale teoria e il ruolo dei casi cinese e indiano nell’applicazione di tale teoria alla fase attuale.

Orbene, per quanto concerne l’imputazione di determinismo, si può rispondere che la realtà economico-sociale non va pensata nei termini di un determinismo meccanicistico di stampo laplaciano, bensì nei termini di un determinismo dialettico marxista, che tiene conto dell’importanza del fattore soggettivo.

In effetti, la teoria di Kondrat’ev risulta assai utile per identificare il profilo morfologico di un determinato processo storico, articolandolo su piani diversi ma interconnessi (economico, sociale, politico, ideologico e psicologico).

Si potrebbe, a tale proposito, rammentare anche uno scritto assai interessante di un uomo politico e filosofo vicino a Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, il quale nell’Aritmetica della storia (1875) ha formulato, ispirandosi alla concezione vichiana dei ‘corsi e ricorsi’, una teoria simile a quella di Kondrat’ev.

Per quanto concerne la leniniana analisi concreta della situazione concreta, occorre ovviamente partire, per una corretta disamina, dalla centralità della crisi di sovrapproduzione nel capitalismo: un problema di cui si sono occupati pensatori di diverso orientamento come Marx, Schumpeter, Robinson, Mandel, Baran e Sweezy, Pala.

Il problema che si pone oggi a chi analizza la fase attuale da un punto di vista marxista è allora quello di riuscire a delineare le dinamiche e le conseguenze specifiche della sovrapproduzione o del sottoconsumo nell’era della produzione e del mercato capitalistico globale.

Del resto, la storia del capitalismo è indubbiamente costituita da fasi di espansione e di approfondimento successive, inframezzate da momenti di transizione più o meno caotici (corrispondenti ad una crisi strutturale).

L’interpretazione ormai classica di questa storia si basa, per l’appunto, sulla formulazione della teoria dei cicli lunghi elaborata da Kondrat’ev, che stabilisce che ognuna delle fasi successive di espansione (“fasi A” nel linguaggio di Kondrat’ev) è preannunciata da trasformazioni importanti di varia natura, le più rilevanti delle quali sono costituite da una concentrazione di innovazioni tecnologiche tali da sconvolgere le forme di organizzazione della produzione e del lavoro.

A sua volta, la crisi di transizione si esprime attraverso lo sconvolgimento dei rapporti di forza sociali e politici che avevano caratterizzato la fase precedente. Oggi, dunque, saremmo coinvolti in una transizione di questa natura (corrispondente nel linguaggio di Kondrat’ev, alla “fase B”).

La teoria di Kondrat’ev può apparire eccessivamente deterministica, ma è assolutamente esatta nel definire l’inevitabilità di una forte crisi economica simile alla ‘Grande Depressione’. Certo, occorre considerare le istanze contrarie alla teoria in questione, ossia la Cina e l’India.

Sennonché, per considerare soltanto la Cina, risulta che essa è, sì, il più grande contenitore di investimenti stranieri del Sud del mondo, ma risulta anche che questo importante paese asiatico è, comunque, ancora focalizzato sulla produzione orientata verso l’esportazione, tal ché il suo contributo rispetto alla sovrapproduzione globale non è decisivo.

Potrebbe però diventare decisivo se la crisi del mercato immobiliare, settore che in questi decenni ha rappresentato un quarto del PIL cinese, dovesse avere un esito rovinoso.

Vi è poi, per quanto appaia problematica nel contesto economico-finanziario internazionale, la possibilità che la Cina si orienti verso una strategia di grande crescita capitalistica, volta sia a generare uno ‘sciame’ di innovazioni tecnologiche sia ad espandere il potere d’acquisto interno.

Ciò nondimeno, allo stato attuale, l’avvio di una fase come quella descritta da Kondrat’ev, caratterizzata prima dalla ‘stagflation’ e poi dalla depressione, sembra lo sbocco più probabile. Occorre, peraltro, aggiungere che non è possibile trarre conclusioni definitive da un’analisi incentrata solo sui livelli di produzione e sulla dinamica della sovrapproduzione.

Occorre, infatti, considerare la politica globale, le dinamiche dell’egemonia culturale e l’azione delle istituzioni internazionali e sovrannazionali che contraddistingueranno la “sesta onda”, perché da questo complesso di elementi e di interazioni dipenderà la possibilità di contenere la crisi entro limiti accettabili, ossia compatibili con la riproduzione del sistema capitalistico.

Senza soffermarsi sulle molteplici crisi (economiche, politiche, sociali, ideologiche, culturali, filosofiche, religiose, demografiche, ambientali ecc.), che oggi compongono quella che Lenin e la Terza Internazionale definivano, negli anni Venti del secolo scorso, come la “crisi generale del capitalismo”, e senza sottovalutare i margini di flessibilità di cui dispone tale modo di produzione, l’attenzione va indirizzata, in questa fase, sulla crisi strategica causata dalla “sovra-estensione” politico-militare dell’imperialismo egemone.

Si tratta del ruolo giocato dal fattore denominato “keynesismo militare”, ossia dal principale strumento, adoperato dai gruppi industriali e finanziari che controllano il potere a Washington, per fuoriuscire dall’attuale ‘impasse’ economica.

L’espansione dell’influenza militare statunitense nel Vicino Oriente, in Iraq, nelle Filippine, nel Sud dell’Asia, in Asia Centrale e in Africa, può trasmettere un senso di potenza (peraltro ridimensionato dalla battuta d’arresto che tale influenza subisce, ad opera della Russia, con la guerra in Ucraina).

Tuttavia, nonostante queste azioni, gli Stati Uniti non sono riusciti a consolidare la vittoria da nessuna parte (si rammenti il caso afghano).

In conclusione, se è vero che la teoria delle ‘onde lunghe’ elaborata da Kondrat’ev è fortemente deterministica (il che, una volta introdotte opportune calibrature e rimodulazioni, va considerato come un pregio e non come un difetto), è anche vero che la situazione attuale è analoga a quelle che si verificarono, rispettivamente, dopo il 1880, dopo il 1929 e, nuovamente, dopo il 1971 (quando, per un verso, il blocco della convertibilità del dollaro in oro fu il corollario della storica sconfitta subìta dagli Usa nella guerra di aggressione al Vietnam e, per un altro verso, ebbe inizio la “terza rivoluzione industriale” fondata sulla tecnologia informatico-elettronica).

Che altro dire se non che ciò che deve accadere alla fine accade, e che ai rivoluzionari spetta il compito di “accelerare le doglie del parto”.

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