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19/06/2014

Il puzzle iracheno tra USA e Iran

di Fabrizio Casari

I miliziani dello Stato Islamico dell’Iraq sono a sessanta chilometri da Baghdad, ma non è detto che vi arriveranno. La penetrazione rapida dei miliziani di Al Zarkiwi, reduci dalla Siria (dove ne hanno prese in abbondanza) è stata possibile grazie al disfacimento rapido della catena operativa di comando dell’esercito iracheno. Il disastro del governo guidato da Al Maliki è solo uno dei guai che hanno combinato le diverse amministrazioni statunitensi negli ultimi 11 anni in Iraq.
Se oggi i miliziani dell’Isis dispongono di un relativo consenso tra la popolazione, è anche a causa dell’agire del governo iracheno: stolto, arrogante, repressivo ed incapace di aprire il dialogo con i sunniti (pure maggioranza confessionale della popolazione) Maliki rappresenta tutto ciò contro cui normalmente le popolazioni si rivoltano; è per questo che i suoi stessi soldati rifiutano di battersi.

Ma Washington non può lasciare l’Iraq in mano ai miliziani provenienti da al-Queda. E’ chiaro però che né Usa, né Francia, Gran Bretagna o Germania sono disposte a inviare truppe. I due eserciti regolari presenti nella zona sono dunque iraniani e turchi e, oltre a loro, sul campo vi sono i peshmerga kurdi, giustamente però concentrati nel mantenimento ogni giorno più difficile della regione da loro occupata.

Che l’Isil entri a Baghdad è tutto da vedere. Non tanto perché il governo Al Maliki sia in grado di sbarrargli la strada, quanto perché il Grande Ayatollah Alì Sistani, massima autorità sciita in Iraq, ha invitato “tutti coloro che possono portare un’arma ad arruolarsi per fermare i membri dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”.
E le immagini dei giorni scorsi di giovani che correvano ad arruolarsi erano una prima risposta all’appello della massima autorità sciita che vede ora il conflitto interno all’Iraq come una guerra necessaria a fermare gli appetiti sunniti sostenuti dell’egemonismo delle monarchie del Golfo. Qatar e Arabia Saudita, infatti, sponsorizzano rispettivamente i Fratelli musulmani e i guerriglieri siriani, dal momento che il wahabismo è legatissimo al salafismo che anima i jahidisti che combattono per il califfato sunnita in tutta la regione, dalla Siria fino al Golfo passando per l’Iraq.

Ma in un comune sentire tra le città sante di Najaf e Qom, la componente sciita ha trovato la sua unità politica e l’Iran, considerata la patria protettiva per ogni sciita, non potrà che confermare il suo ruolo storico scendendo direttamente in campo. Per Teheran però, il che fare ha dei tempi più lunghi. A ben vedere, Rohani non ha troppa fretta nell’intervenire. Conscio che in sole 24-48 ore può debellare completamente le milizie jiahidiste di Al-Zarkawi, è però evidente che non sia disposto a pagare il prezzo di una guerra senza ottenere nulla in cambio. Dunque tende sì la mano, essendo comunque anch’essa interessata a fermare l’Isil ed il loro folle progetto di califfato, ma non ha nessuna intenzione di tirare fuori dai guai Washington senza riscuotere quanto chiede.

Teheran vuole riprendere il ruolo politico regionale che gli spetta. Dunque chiede non solo che finisca l’embargo occidentale e che si riaprano i corridoi del dialogo politico, ma si spinge a proporsi all’Occidente in generale, e agli Stati Uniti in particolare, come garante di un ordine regionale molto più affidabile e stabile di quello che si regge sui petrodollari delle monarchie saudite.

Tanto Arabia Saudita come Qatar, infatti, sono il vero elemento di destabilizzazione dell’intera regione. Sono il motore finanziario e politico del terrorismo mediorientale e Washington non può continuare per molto a far finta di combattere il terrorismo jiahidista, sia esso rappresentato da al-Qaeda sia dalle sue derivazioni in Siria o in Iraq, (tra le quali appunto l’Isil) mentre contemporaneamente è l’alleato principale delle monarchie del Golfo che li finanziano.
La Casa Bianca è perfettamente conscia del fatto che i diecimila miliziani di Abu Bakr al Baghdadi sono finanziati e armati dai soldi sauditi e che saudita è il finanziamento del progetto del califfato sunnita nei territori tra il nord e l’ovest dell’Iraq e della Siria orientale attualmente in mano all’Isil.

Teheran interverrà se necessario, ma il prezzo politico che chiede di pagare agli Stati Uniti non è minore di quello che l’Iran pagherebbe sul fronte di battaglia. Non pretenderà certo che gli USA chiedano ufficialmente all’Iran di intervenire per suo conto, e si rende perfettamente conto che un’azione comune con “lo Stato canaglia” sarebbe di difficile gestione politica da parte della Casa Bianca. Ma questo non significa che non sia possibile un intervento condiviso.

Sebbene infatti lunedì scorso a Vienna gli Stati Uniti abbiano negato l’esistenza di ”piani di coordinamento delle attività militari con Teheran” e abbiano ribadito l’invio di una portaerei e cinque navi da guerra in appoggio nel Golfo Persico, tutti hanno ben chiaro che l’avanzata dei terroristi dell’Isil non può essere contrastata solo con aerei, droni o caccia che siano, o missili dalle navi.
Bisognerà comunque scendere a terra, eliminare il comando militare e politico dell’Isil e ripristinare il controllo del territorio per riconsegnare l’Iraq al successore di Al Maliki, comunque ormai bruciato. E tutti sanno anche che l’Iran è l’unico esercito che dispone di unità scelte adatte ad una pulizia rapida e in profondità. Peraltro Teheran può contare sull’appoggio degli Hezbollah libanesi, particolarmente abili nella guerriglia di città e da un anno autentica maledizione proprio dei jahidisti dell’Isil nel conflitto siriano.

E proprio la Siria entra di riflesso nel possibile scacchiere iracheno, perché la stessa Turchia, che si vorrebbe coinvolta nella lotta contro l’avanzata jahidista, sebbene in quanto paese membro della NATO gode della fiducia politica di Washington, risulta in buona parte compromessa, dal momento che proprio Ankara ha rappresentato uno dei retroterra militari, politici e logistici dei guerriglieri che si recavano in Siria, alleati con l’Isil, per combattere contro il regime di Assad.
Quindi l’Iran, che di Assad è alleato, è il solo governo ad avere per coerenza politica, forza militare e autorevolezza religiosa, le carte necessarie da giocare sul tavolo iracheno. Ma che, inevitabilmente, finiranno sul più ampio tavolo del Golfo e del Medio Oriente.

Le prossime 48 ore indicheranno con maggiore chiarezza lo scenario della controffensiva in Iraq. La sconfitta dei jiahidisti dell’Isil sarà la sconfitta del progetto di califfato sunnita e non potrà non ripercuotersi anche sulle monarchie saudite, che rischiano di perdere molto di più di quanto hanno investito in armi e terrore per mantenere i loro regimi medievali e parassitari, autentico vulnus democratico in tutto il Golfo Persico e l’intero Medio Oriente.
Gli Stati Uniti viaggiano a ritmi spediti verso la loro autosufficienza energetica e l’importanza degli emiri diminuisce progressivamente. Sebbene la necessità di mantenere la destabilizzazione internazionale e la guerra permanente sia inderogabile per il complesso militar-industriale statunitense, non è detto che un nuovo disegno nel riassetto dei poteri regionali veda ancora Ryadh in un ruolo chiave.

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