La travolgente offensiva in Iraq dei miliziani jihadisti dell’Isis (Stato Islamico di Iraq e Siria) svela drammaticamente – ma meglio di tante arzigogolate argomentazioni – le conseguenze della “destabilizzazione creativa” praticata dagli Stati Uniti e dalle potenze loro alleate. Una destabilizzazione che si è manifestata in particolare in Africa e in Medio Oriente, riscrivendo quasi completamente la mappa geopolitica dell’area e riempiendola di quelle che possiamo definire come “terre di nessuno”. “Possiamo solo immaginare quali sarebbero state le conseguenze se a gennaio Stati Uniti e Francia avessero attaccato la Siria”, sottolineava giustamente qualche giorno fa Alberto Negri sul Sole 24 Ore.
Già Eric Hobsbawn, nella sua intervista sul Secolo Breve, indicava come la faglia nella storia del XXI Secolo sarebbe stata la contrapposizione tra le aree dove esistono gli Stati e quelle dove gli Stati non esistono più. Il mondo infatti si va sempre più definendo non più come diviso tra un primo e un terzo mondo, ma tra Stati forti e “disgreganti” (magari anche con processi inediti come quello che ha portato all’Unione Europea) e Stati “disgregati”.
Gli Stati più forti si integrano fra loro in nuovi blocchi economico/politici mentre quelli più deboli – spesso frutto di una decolonizzazione pilotata proprio dalle ex potenze coloniali – vengono disintegrati in territori senza sovranità, divisi e contesi da gruppi armati con i quali è possibile negoziare o combattere in condizioni assai più asimmetriche e vantaggiose per le multinazionali e gli stati imperialisti.
L’apparente obiettivo di questo scenario è la scomparsa dello Stato nei paesi in cui la “rivoluzione democratica” è stata imposta con i bombardamenti o con i colpi di stato eterodiretti da Washington, Londra, Riad e talvolta Parigi.
La stabilità destabilizzante realizzata dalle potenze occidentali, in collaborazione con le petromonarchie del Golfo, ha mandato per aria i regimi “laici” in Libia, Iraq, Corno d’Africa e Africa centrale. Ha deposto e ricomposto i regimi “laici” in Tunisia ed Egitto. Di fatto è stato raggiunto l’obiettivo di Usa e Israele di “balcanizzare” l’Iraq in tre cantoni (sunniti/Isis, kurdi al nord, sciiti nel sud). Ha provocato la secessione in Sudan (e prima ancora nei Balcani e nel Caucaso), ha fallito – per ora – li tentativo di disintegrare la Siria ma ha lasciato indenni, se non rafforzato, le monarchie petrolifere del Golfo.
Il segretario di Stato USA Kerry ha già indicato come i responsabili di questa destabilizzazione permanente intendano gestire gli effetti della loro azione: bombarderanno dall’alto dei cieli con i loro droni e impediranno di volta in volta che qualcuna delle fazioni armate, sorte nelle terre di nessuno, prevalga sulle altre. Sembra uno scenario da fantascienza (modello Elysium, potremmo dire) ed invece è quanto pianificato, realizzato e previsto dalle grandi potenze per il futuro.
Ora il cerchio di fuoco intorno all’Europa non brucia solo a sud, ma infiamma anche le regioni all’Est. La destabilizzazione e il conflitto in corso in Ucraina stanno esattamente dentro questa logica prettamente imperialista, nel senso più moderno e attuale del termine. L’instabilità infatti non è senza “centri di comando”, ma ne rappresenta una derivazione diretta. In gioco non c’è solo la partita energetica.
L’impero del caos nei paesi esterni e periferici rispetto ai centri imperialisti, consente di giocare a mani libere la partita a scacchi della competizione globale tra i vari poli determinando di volta in volta gli spazi per la concertazione e quelli per il conflitto. La vicenda della competizione energetica, della guerra sulle pipelines e i corridoi strategici (Nabucco versus South Stream ad esempio) è un aspetto rilevante ma non esclusivo di questa fase storica. Alzare continuamente la soglia della tensione rischia di creare uno o più punti di non ritorno, quelli nel quale il rapporto costi/benefici viene sottratto ai “politici” e affidato ai “tecnici”; e in particolari condizioni i tecnici che prendono in mano le decisioni sono i comandi militari. Efficacemente, Mark Twain diceva che è vero che “la storia non si ripete, ma è anche vero che spesso fa rima”.
Nella manifestazione del 28 giugno e nel controsemestre popolare finalmente, dopo anni di rimozione, ci sarà posto anche per il confronto e l'iniziativa sui pericoli di guerra. E' una parte del ritardo che comincia ad essere recuperato. Prima è, meglio è.
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