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07/08/2013

Scandalo in Cile: non ci sarà giustizia per i 33 minatori rimasti bloccati nel 2010

Il tribunale di Atacama, nell’estremo nord del Cile, ha assolto ieri tutti i presunti responsabili del crollo nella miniera San José, che lasciò per 70 giorni 33 minatori a 700 metri di profondità, obbligando a un difficilissimo salvataggio. È l’ennesimo caso di impunità e di disprezzo della vita e della sicurezza dei lavoratori in un paese che si vanta di avere ormai raggiunto il “primo mondo”.

Perfino l’allora ministro per le miniere Laurence Golborne (destra) ha giudicato «incredibile» la sentenza che ha assolto i proprietari della miniera, Alejandro Bohn y Marcelo Kemmeny e i funzionari dell’ente pubblico di controllo. Per Golborne la sentenza è inspiegabile perché era nelle carte che l’impresa non avesse adottato neanche quelle misure di sicurezza - comunque insufficienti - che erano state espressamente richieste dalle autorità. Qualunque cosa dica Golborne, sotto accusa in questo momento anche per aver esportato fondi verso paradisi fiscali, evidentemente la giustizia cilena non è strutturalmente capace di punire reati commessi da colletti bianchi e lo stesso Golborne è in queste ore chiamato in causa come corresponsabile dei fatti della miniera dal deputato socialista Luís Lemus. In Cile, un paese che tuttora deve alle miniere di rame moltissimo in termini di export, la poltrona di Ministro delle Miniere è una delle più importanti e tradizionalmente in sinergia con i padroni delle stesse.

I 33 minatori restarono bloccati dal 5 agosto al 13 ottobre del 2010 quando, con un’operazione di recupero durata 25 ore, furono salvati attraverso un tunnel di appena 50 cm di diametro. Per i primi 17 giorni restarono completamente isolati, con un cucchiaio di cibo al giorno a testa, a 40 gradi, con il 90% di umidità e con la pelle presto coperta di funghi. Poi riuscirono miracolosamente a comunicare con l’esterno e furono salvati in quella che si trasformò in una straordinaria operazione di marketing politico per Sebastián Piñera. Questo bivaccò per settimane sulla bocca del pozzo in favor di telecamere per un evento dalle caratteristiche emozionali tali da divenire mondiale.

Mario Sepúlveda (foto), uno dei portavoce dei minatori, ha dichiarato alla stampa cilena che molti di loro hanno accolto la sentenza con grande frustrazione, pena e pianto. La maggior parte di loro ha avuto seri problemi nei tre anni trascorsi, sia dal punto di vista lavorativo che personale, quasi tutti continuano a usare medicinali e sono in psicoterapia. Più d’uno ha avuto problemi di alcool, uno di loro è stato processato per percosse alla moglie e molti segnalano l’instabilità d’umore come una delle conseguenze più durature. Quattordici di loro, i più anziani, non sono riusciti a reinserirsi nel mondo del lavoro e hanno beneficiato di una mini-pensione sociale. Anche per gli altri, dopo i primi tempi di popolarità, di inviti e di aiuti (alcune migliaia di Euro a testa), il ritorno alla realtà è stato drammatico con il ritorno ad una condizione esistenziale e professionale peggiore della preesistente. Aspettavano congrui risarcimenti ma la compagnia mineraria ha dichiarato fallimento e la causa verso lo Stato per negligenza (chiedono 540.000 dollari a testa) si vedrà notevolmente rallentata se non definitivamente arenata dalla sentenza di ieri.

Al momento l’unico costo che l’impresa ha dovuto sopportare sono stati i 5 milioni di dollari del salvataggio ai quali è stata obbligata dal governo, meno di un quarto del costo dell’operazione che fu di 22 milioni. Impunità, ancora impunità per un dramma dalle responsabilità evidentissime e che solo per caso non ha lasciato morti. Ma quel mondo che nel 2010 guardava con emozione al deserto di Atacama oggi guarda da un’altra parte.

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