In terra di Siria arrivano i Tomahawk lanciati da statunitensi, britannici e francesi per
punire, non per cacciare Assad. Un’azione dichiarata lampo che durerà tre giorni
al massimo, dicono gli strateghi americani fautori dell’incursione bellica per
salvare la faccia al loro presidente premio Nobel per la pace. Ma la
contraddizione non dovrebbe trasformarsi in una guerra “umanitaria”, questa già
la combattono le milizie pro Qaeda contro le truppe lealiste ai danni d’un
popolo massacrato e fuggitivo, con o senza la crudeltà dei gas letali. Mesi e
mesi di osservazione passiva da parte d’una cinica comunità internazionale per
uno dei nodi più intricati della politica mediorientale che l’intervento
previsto non risolve anzi esaspera seguendo, pur nelle differenze, copioni già
noti. Però al Pentagono pensano di non ripetere i casi iracheno e libico, non
fosse altro perché insoddisfacenti ad appagare i propri scopi geostrategici e
politici. Quest’ultimi restano in sospeso nella crisi siriana, poiché la grande
incognita da affrontare e il vero obiettivo dell’intervento nel nuovo magma
mediorientale sono frutto del ridisegno del quadro regionale e la
risistemazione delle alleanze sottoposte alla pressione degli eventi. Che
comprendono anche nuove velleità d’Impero russe e cinesi per ora legate a
energia e mercati.
Le Primavere arabe sono state un’esplosione di rabbia e bisogni,
economici e morali. Hanno scalzato tigri che sembravano di carta (le dittature populiste
dei Ben Ali e Mubarak) che però conservano, come nel caso del vecchio raìs
egiziano, una salda presa su una parte della società. Nelle due nazioni dove l’Islam
politico saliva a furor di voto al potere, in uno spazio temporale pur breve i
governi di Ennadha e della Fratellanza non solo non risolvevano neppure uno dei
cento problemi che assillano paesi avvizziti dai precedenti malgoverni filo coloniali,
ma creavano profonde spaccature su cui infilano gli artigli nostalgici lobby
potenti come quella militare egiziana. Altrove (Barhein, Yemen) era solo
repressione, in Siria illusione di scalzare un regime egualmente autoritario
che non disdegnava di mitragliare i cortei popolari prima d’ingaggiare un
conflitto civile più che coi ribelli propriamente detti, contro milizie
foraggiate dall’Occidente e l’internazionale jihadista sostenuta da regimi
reazionari e miliardari (Arabia Saudita, Eau, Qatar) mai sfiorati dal vento
delle stesse Primavere.
La partita dell’egemonia regionale, combattuta da anni dagli stati iraniano e saudita
prim’ancora che dal rispettivo sciismo e sunnismo, sostenuta dalla politica
delle alleanze, le prediche degli imam, le scuole coraniche e i pellegrinaggi
nei luoghi sacri, i mercati petroliferi aperti e chiusi, gli embarghi subiti e
i ricatti del costo del petrolio lanciati, i finanziamenti ai paesi satelliti o
presunti tali nei simulacri di banche, hotel a sei e sette stelle, ma anche
ospedali, università, scuole e moschee (per comprenderlo basta viaggiare, finché
è possibile, dal Libano all’Afghanistan). Combattuta tramite gli alleati che
vanno dal “cuscinetto giordano” alla milizia tetragona di Hezbollah, disputata
nei mesi e nelle settimane che incrudiscono l’instabilità dell’area col ritorno
al passato delle autobomba ricomparse in Libano, addirittura in Turchia e in
un riflagellato Iraq. Proprio il Paese
martire a causa dell’invasione inventata da Bush jr e dei comportamenti satrapi
di Saddam rischia più di altri l’allargamento di una deflagrazione bellica a
catena. Il compromesso della coesistenza fra confessioni ed etnie, esperimento
diverso ma non lontanissimo da quello libanese, è nel mirino del sunnismo
fondamentalista rinfocolato nelle matrasse wahabbite.
C’è pure la Turchia che dopo le illusioni europeiste era tornata a
riguardare a Oriente, ed è costretta a riaggiornare il consolidato modello erdoğaniano, scalfito dalle
contestazioni casalinghe e claudicante nel Medio Oriente dove i problemi coi
vicini si sono moltiplicati anziché azzerarsi. Il flirt con la Fratellanza, ora
in forte difficoltà in Egitto, è diventato un boomerang e vive tutti gli
inconvenienti del dramma siriano con le centinaia di migliaia di profughi che
premono ai confini e il ruolo turco di belligerante servile, non tanto della Nato
cui il proprio esercito appartiene, ma dei capricci della Casa Bianca. Insomma Erdoğan perde terreno in quei circuiti
anti imperialisti verso cui aveva diretto uno sguardo molto autoreferenziale.
Nella fibrillazione introdotta dall’ipotesi d’un allargamento del conflitto è
contro “l’anomalia” iraniana e il suo caparbio antiamericanismo che Washington punta
il dito assieme al piccolo-grande alleato israeliano. E’ contro quella realtà
autoctona che osa proseguire il programma nucleare concesso a India e Pakistan
ma proibito agli ayatollah per la mai rinnegata rivoluzione khomeinista. Obiettivo
che sa di antiche revanche e torna attuale; un fine che potrebbe trascinarsi
destabilizzazioni della produzione petrolifera capaci d’infiammare i mercati
del mondo alla stregua di una distruttiva guerra locale.
Restano i popoli: dimenticati, massacrati e traditi anche da chi dice di
difenderli per spirito di patria, etnia, confessione, umanità. Gli ideali non
li cita più nessuno. Non fanno presa, non cementano e sono fuori mercato.
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