Negli anni ‘90 i marchi come Tiscali e Kataweb volavano in Borsa. Oggi sono quasi tutti falliti. Ma i loro inventori sono stra-ricchi, grazie a un gigantesco passaggio di denaro - miliardi di euro - dalle tasche di molti a quelle di pochi.
La storia esemplare è quella di Silvio Scaglia. Il
55enne imprenditore di Novara poche settimane fa ha investito 69
milioni, piccola parte del denaro accumulato grazie alla famosa “new economy”, nell’acquisto di La Perla, nota azienda bolognese dell’abbigliamento intimo femminile. Nei suoi progetti c’è una forte sinergia con la Elite Model World,
agenzia di moda comprata tre anni fa, per costituire un polo mondiale
del lusso. Proprio perché la bellezza femminile rimane un valore, anche
di mercato, del tutto analogico, la mossa di Scaglia illumina una
tendenza dell’imprenditoria italiana. Negli anni del primo boom
internettiano (1998-2001) l’Italia credeva di poter ancora salire sul
rutilante treno dell’innovazione digitale: la new
economy appariva (o più propriamente veniva presentata) come un campo di
gioco in cui tutti partivano da zero e dove le imprese tricolori non
avrebbero pagato dazio al declino del sistema industriale nazionale.
La Fiat, alla vigilia del collasso, affidava al giovane nipote dell’Avvocato, John Elkann, l’avventura digitale del portale Ciao-web, con poderosi investimenti. Carlo DeBenedetti, che si era appena lasciato alle spalle la letterale distruzione dell’Olivetti, giocava le sue carte sul giovane Paolo Dal Pino, capo del portale Kataweb. La Telecom, appena scalata dalla “razza padana” di Roberto Colaninno,
cavalcava la bolla del web attribuendo valori fantasiosi alla sua
Tin.it. Poi c’erano i nuovi protagonisti: Renato Soru con la sua
Tiscali, Paolo Ainio e Carlo Gualandri con Matrix, mamma del portale
Virgilio, e Scaglia, appunto, con E.Biscom, progenitrice di Fastweb.
Bolle e fallimenti
Trascorso
un decennio, si può abbozzare un bilancio: la new economy italiana si è
risolta in una collana di fallimenti, e mentre nel mondo si sono
consolidate realtà immense (sia pure tra perduranti incognite) come Google o Facebook,
gli imprenditori italiani che in quegli anni hanno fatto più soldi si
sono convertiti alla restaurazione analogica. Attenzione, però: non
tutti. Imprenditori e manager “nativi digitali”, forse perché sapevano
fare solo quello, hanno continuato sulla loro strada. Venduta Matrix
a Telecom Italia per una cifra nell’ordine dei miliardi di euro, Ainio
ha fondato Banzai, gruppo poliedrico e molto attivo nell’editoria online
(da Liquida a Il Post di Luca Sofri).
Gualandri, insieme a un altro pioniere di Matrix, Fausto Gimondi, ha
costituito GiocoDigitale, che fa business sui giochi online. Andrea
Granelli, che ha guidato lo sviluppo internet del gruppo Telecom negli
anni del boom, ha una affermata società di consulenza per l’innovazione,
la Kanso.
Un caso controverso è quello di Renato Soru. All’inizio Tiscali
fu un’operazione geniale: è stato il primo a offrire l’accesso gratuito
a Internet, quando ci si collegava con la telefonata urbana, e Soru
seppe sfruttare la regola che gli dava diritto alla retrocessione da
parte di Telecom di una parte della tariffa quando la chiamata era
diretta ai suoi nodi di connessione alla rete. Nell’euforia della bolla,
quando Tiscali fu quotata in Borsa, il 27 settembre
1999, le azioni andarono a ruba. In pochi mesi dal prezzo di
collocamento di 46 euro arrivarono a 1.200 euro. Tiscali nella primavera
valeva in Borsa più della Fiat e aveva 3.500 dipendenti, e tutto era
basato sulle mitiche “prospettive”.
Esplosa la bolla, la società
di Cagliari ha cominciato a declinare, non ha mai fatto un centesimo di
utile in 15 anni e ha un quarto dei dipendenti di allora. Nel 2004 Soru
ha ceduto alla più analogica delle lusinghe, la carriera politica. È
stato eletto governatore della Sardegna e per cinque anni non si è più
occupato di Tiscali, ufficialmente, come Berlusconi con Mediaset. Nel
2009 è stato battuto alle elezioni da Ugo Cappellacci
ed è tornato al capezzale di Tiscali, che resta faticosamente in vita.
Non è ancora chiaro se Soru correrà per le regionali sarde del 2014, il
personaggio rimane sospeso tra i cieli digitali e l’analogica terra
politica, “nativo digitale” anomalo, figlio di una cultura commerciale
più che tecnologica.
Gli altri grandi eroi della “new economy” si
rivelarono subito più abili speculatori che arditi costruttori di
futuro. Roberto Colaninno era un manager stipendiato da Carlo De
Benedetti, che gli affidò l’Olivetti morente. Prima la rianimò
buttandola sulle telecomunicazioni, con Infostrada e Omnitel, poi la usò per scalare Telecom Italia a debito (subito scaricato sulla stessa Telecom), e con Lorenzo Pellicioli del gruppo De Agostini orchestrò la famosa operazione Seat-Tin.it. La Seat,
venduta pochi anni prima da Telecom, faceva le Pagine Gialle che erano
negli anni 90 una macchina da soldi. Con l’idea che grazie al web gli
elenchi telefonici sarebbero diventati un potentissimo motore per il
commercio elettronico, Seat era arrivata a valere 20 miliardi di euro.
Nel febbraio 2000 (tutto allora accadde in pochi mesi) fu annunciata la fusione tra Seat e Tin.it,
la società Telecom che dava l’accesso alla rete. Tin.it valeva pochi
milioni di euro e non era quotata, ma, siccome gli accordi prevedevano
che la nuova società sarebbe stata controllata da Telecom, bisognava
fare la fusione alla pari. E una perizia della Ernst&Young
stabilì che Tin.it (fatturato 1999 di circa 75 milioni di euro)
valeva, appunto, 20 miliardi di euro, in forza della “prospettive”.
Insomma, Seat-Tin.it era valutata più di Yahoo!, e il Wall Street Journal
commentò così: “Questa stima ha lo stesso senso di credere che si possa
far nascere un dinosauro prendendo il Dna di una zanzara intrappolata
nell’ambra”.
Nell’euforia le azioni Telecom arrivarono a valere 20
euro. Le Seat superarono i 7 euro, un anno dopo erano già scese a uno,
poi le Pagine gialle sono pressoché defunte e Tin.it fu rivenduta a
Telecom per pagare i buchi fatti da La7, comprata in
quei mesi da Colaninno e Pellicioli. Il risultato di quella storia è il
seguente: Telecom è in ginocchio sotto il peso di 40 miliardi
di debiti, Pellicioli è diventato personalmente ricchissimo e sta nel
consiglio delle Generali (gigante delle assicurazioni analogiche), molti
risparmiatori si sono rovinati e Colaninno in cinque anni si è
trasformato da manager a uno degli imprenditori più ricchi d’Italia: si è
arricchito più velocemente di Bill Gates.
Un fiume di soldi e di errori
Durante
la bolla della new economy sono accadute cose interessanti sul piano
del progresso tecnologico, ma soprattutto è stato orchestrato un
gigantesco passaggio di denaro – miliardi di euro –
dalle tasche di molti a quelle di pochi. Ma quei soldi non sono andati a
finanziare l’innovazione. Roberto Colaninno, che si autodefinì
“ricchissimo” quando Telecom fu venduta alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera nel luglio del 2001, ha messo i suoi capitali nell’Immsi (immobili), nella Piaggio (veicoli a due e tre ruote) e nell’Alitalia da salvare.
Anche la parabola di John Elkann è interessante. Curò la nascita di Ciaoweb, il portale di casa Fiat, investendo centinaia di milioni di euro. Poi ne vendette una piccola quota alla Juventus
(tutto in famiglia) per fare il prezzo: in base a quella transazione
Ciaoweb venne valutato un miliardo di euro, e si preparava allo sbarco
in Borsa. Ma era già l’estate del 2000, e l’attimo fuggente era fuggito.
Il Nasdaq, la Borsa tecnologica di Wall Street, aveva cominciato a crollare a marzo 2000, la festa era finita, le tasche dei risparmiatori erano salve, Ciaoweb no. Tredici anni dopo Elkann punta al controllo della Rcs-Corriere della Sera con il 20 per cento delle azioni.
È vero che il futuro dei giornali è sulla rete, ma il presente è ancora
fatto di rotative, inchiostro e camioncini che viaggiano di notte con i
pacchi dei giornali. Elkann è un altro folgorato sulla via
dell’analogico, con la specialità di comandare con i soldi degli altri.
L’illusione di Kataweb
Lo stesso giochino lo tentò Paolo Dal Pino, il manager che guidava Kataweb, il portale del gruppo Espresso. L’operazione, affidata a due giornalisti lungimiranti come Vittorio Zambardino e Claudio Giua, era di qualità. Il portale di Repubblica
andava forte, e si investiva moltissimo confidando nei futuri ricavi.
Kataweb si dotò di un intero palazzo, con centro congressi multimediale
al piano terra (oggi c’è un bel supermercato analogico). De Benedetti e
Dal Pino convinsero Alessandro Profumo di Unicredit a
comprare il 5 per cento di Kataweb per 305 miliardi di lire: come Elkann
con la Juve, Dal Pino vedeva automaticamente fissato, dall’autorevole
banca milanese, a 6mila miliardi di lire il valore della società.
Sembrava che il portalone fosse destinato a diventare più importante del
gruppo editoriale tradizionale. E qualcuno ha sospettato che la mancata
quotazione in Borsa (altro pericolo scampato per i risparmiatori) non
fosse dovuta solo al ritardo e all’esplosione della bolla, ma anche alla
gelosia verso Dal Pino del grande capo del gruppo Espresso, l’amministratore delegato Marco Benedetto.
Dal
Pino si è spostato poi alla Seat, nella Telecom di Tronchetti Provera,
ed è lentamente tornato al mondo analogico. Oggi è capo della Pirelli in
Sud America, si occupa di copertoni. De Benedetti, che nel frattempo
aveva tirato su un bel po’ di miliardi portando in Borsa Cdb Webtech,
ha investito su centrali termoelettriche e cliniche per anziani. Solo
Benedetto, paradossalmente, si è convertito al digitale: andato in
pensione ha rispolverato il vecchio mestiere di giornalista e ha fondato
un giornale online, blitzquotidiano.it .
Fastweb boom
Ma
la conversione analogica di Scaglia resta la più eclatante. Stava nel
pacchetto di mischia di Omnitel in una squadra di grande avvenire:
c’erano Francesco Caio, Vittorio Colao, Tommaso Pompei.
Lasciò per andare a fare E.Biscom, con l’idea di usare le canaline
dell’Aem, la municipalizzata elettrica milanese, per cablare la città
con la fibra ottica. Lo aiutò il rapporto costruttivo
con il city manager Stefano Parisi, che credeva talmente nell’operazione
da sfidare prima le critiche di chi si chiedeva che cosa ci guadagnasse
il Comune, e poi qualche voce malevola quando nel 2004 andò a fare
l’amministratore delegato proprio di Fastweb.
E.Biscom
fu quotata in Borsa nel marzo 2000, al picco della bolla internet, a
160 euro per azione, e portò in cassa 1,6 miliardi di euro. Il titolo
volò fino a 240 euro in poche settimane, poi precipitò. Nel 2007 (ormai
era Fastweb) Swisscom l’ha comprata lanciando
un’offerta pubblica di acquisto a 47 euro. Scaglia diventa così uno
degli uomini più ricchi d’Italia e lancia a Londra Babelgum, portale
video di qualità che non è mai decollato ed è stato chiuso. Anche perché
nel frattempo sul capo sono arrivate le disgrazie giudiziarie, con la truffa Iva che ha coinvolto Fastweb e Telecom Italia Sparkle. Quindi l’arresto,
quasi un anno di custodia cautelare, le proteste d’innocenza e un lungo
processo ancora in corso. Siamo fermi alle richieste dei pm: 7 anni di
carcere per associazione a delinquere e altri reati. E infine La Perla.
Intimo femminile e processo penale, tutto molto analogico. Sic transit
gloria web.
Fonte
L'articolo è interessante perchè offre uno spaccato ben documentato del capitalismo digitale indigeno facendo capire in quali voragini siano finiti buona parte dei risparmi che gli italiani gettavano incautamente sul mercato borsistico all'indomani della sua deregolamentazione da parte del primo governo Prodi (mi pare).
Tuttavia lo scritto di Maletti è assolutamente fallace quando afferma quanto segue:
"la new economy italiana si è risolta in una collana di fallimenti, e mentre nel mondo si sono consolidate realtà immense (sia pure tra perduranti incognite) come Google o Facebook, gli imprenditori italiani che in quegli anni hanno fatto più soldi si sono convertiti alla restaurazione analogica"
Messa così pare che, al solito, l'occasione sia stata "persa" solo sul suolo italiano, quando invece la cosiddetta new economy ha mietuto vittime (tante) in tutto il mondo a partire dalla sua culla californiana, dove a fronte di un vivaio enorme di aziende del settore, hanno prosperato sulla morte altrui soltanto pochi monoliti come Google e Microsoft che hanno fatto ne più ne meno di quanto s'è visto a casa nostra: drenare risorse da un mercato incapace di capire che stava creando dei monopolisti che non avrebbero redistribuito nemmeno un decimo della ricchezza generata rispetto alle precedenti attività produttive "analogiche". Non a caso l'esplosione informatica negli USA non ha assolutamente arginato il declino industriale americano, con buona pace dei tecno entusiasti e dei detrattori a senso unico del "sistema Italia".
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