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18/08/2013

Il tour di guerra di Dempsey

di Michele Paris

Il capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, è stato protagonista questa settimana di una trasferta in Medio Oriente dove ha incontrato i leader politici e militari di due degli alleati più stretti degli Stati Uniti nella regione. La visita in Israele e in Giordania dell’ufficiale più alto in grado delle Forze Armate americane è apparsa a molti come la prova generale di un possibile prossimo intervento diretto di Washington per dare una svolta definitiva alla crisi in Siria.

Atterrato lunedì in territorio israeliano, Dempsey ha incontrato il proprio omologo Benny Gantz, il ministro della Difesa Moshe Yaalon e, ovviamente, il primo ministro Benjamin Netanyahu. Secondo i comunicati ufficiali, le discussioni sono state incentrate sulle “minacce che vengono dalla regione e su come lavorare assieme per rendere più sicuri i due paesi” alleati.

Netanyahu - capo del governo di un paese che dispone dell’unico arsenale nucleare in Medio Oriente e che nella propria storia ha ripetutamente aggredito militarmente i paesi vicini senza essere provocato - ha inoltre ricordato a Dempsey come Israele debba “fronteggiare numerose minacce”, tra le quali la più grande sarebbe rappresentata dal nucleare iraniano.

In un vertice al ministero della Difesa di Tel Aviv, Gantz ha invece sottolineato ripetutamente la saldezza della partnership con gli Stati Uniti e l’identità di vedute tra i due alleati riguardo la situazione mediorientale, confermando come le azioni di Washington nella regione continuino ad essere coordinate con i vertici israeliani.

L’importanza delle questioni militari in relazione alla Siria era apparsa evidente anche dalla visita in Israele del comandante dell’aviazione USA, generale Mark Welsh, andata in scena segretamente tra il 4 e l’8 di agosto in preparazione dell’arrivo di Dempsey. Welsh aveva anch’egli incontrato Benny Gantz e il suo omologo israeliano, generale Amir Eshel, con il qualche è stata probabilmente presa in considerazione una delle misure di cui si parla da tempo nonostante le smentite dell’amministrazione Obama, vale a dire l’imposizione di una no-fly zone senza il mandato ONU in territorio siriano al confine meridionale.

La seconda tappa del viaggio di Dempsey - la Giordania - risulta poi come Israele una pedina fondamentale nella strategia americana in Siria, soprattutto nell’eventualità di un’operazione militare su larga scala. In questo paese sono infatti già posizionati centinaia di soldati USA, nonché aerei F-16 e batterie di missili Patriot, tutti ufficialmente pronti ad essere attivati per prevenire eventuali “minacce” provenienti dal regime di Assad.

L’attenzione sulla Siria alla vigilia della trasferta in Medio Oriente di Dempsey era stata riportata qualche giorno fa da un’intervista ampiamente citata del vice-direttore uscente della CIA, Michael Morrell, rilasciata al Wall Street Journal, nella quale descriveva un eventuale successo in Siria delle forze legate ad Al-Qaeda come la principale minaccia odierna alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Le parole di Morrell, il cui senso viene peraltro ripetuto da tempo da vari membri dell’amministrazione Obama, sono state prontamente utilizzate allo scopo di promuovere ancora una volta un maggiore coinvolgimento in Siria da parte americana per evitare uno scenario catastrofico. In realtà, a provocare il caos in cui versa il paese mediorientale sono state precisamente le politiche dissennate degli USA e dei loro alleati che stanno finanziando e armando formazioni fondamentaliste, utilizzate di fatto come avanguardie per l’abbattimento del regime di Assad.

Lo stesso generale Dempsey in Israele ha definito il conflitto in Siria come la conseguenza dello “scatenarsi degli scontri religiosi, etnici e tribali”, senza spiegare come quest’ultimo scenario sia stato alimentato precisamente dalle mire imperialiste del suo governo in Medio Oriente, dove le storiche divisioni settarie vengono puntualmente sfruttate proprio per promuovere gli interessi strategici di Washington.

Per occultare questa realtà imbarazzante e le loro responsabilità nell’avere contribuito a crearla, esponenti del governo e dell’apparato militare americano come Dempsey insistono nel sottolineare la necessità di sostenere le forze “moderate” all’interno dell’opposizione siriana, anche se lo stesso capo di Stato Maggiore USA ha ammesso che i gruppi “moderati” e quelli “radicali collaborano gli uni con gli altri” nel combattere il regime di Damasco.

Una simile caratterizzazione è sintomatica delle apprensioni diffuse a Washington circa il futuro della Siria ma, in effetti, non si avvicina nemmeno lontanamente alla realtà sul campo, dove a prevalere sono le milizie islamiste radicali che beneficiano degli sforzi economici e militari di paesi come Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi e Turchia, sotto la diretta supervisione di Washington.

Mentre in Occidente si ripete da mesi la volontà di rafforzare gli elementi secolari o moderati del fronte anti-Assad, praticamente ogni offensiva che ha avuto successo contro le forze del regime ha visto come protagonisti i gruppi radicali, comprese la recente occupazione di una base aerea nei pressi di Aleppo e l’offensiva della scorsa settimana nella provincia costiera di Latakia.

Dopo avere scritto a lungo delle imprese del Fronte al-Nusra, i media occidentali nelle ultime settimane hanno analizzato le attività di un’altra e, se possibile, ancora più sanguinaria formazione estremista attiva in Siria, il cosiddetto Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Quest’ultimo fa parte della rete internazionale di Al-Qaeda ed è tra l’altro impegnato, secondo quanto scritto un paio di giorni fa dal Washington Post, nell’espansione della propria influenza “sui territori strappati ad altri gruppi ribelli” grazie al supporto di migliaia di guerriglieri stranieri provenienti dalla regione mediorientale e non solo.

La situazione che si sta delineando, come ha affermato sempre al Washington Post Bruce Hoffman, direttore degli studi sulla sicurezza presso l’università di Georgetown, potrebbe fare della Siria “una variante più temibile di ciò che era l’Afghanistan più di tre decenni fa”, dove l’impegno contro il regime filo-sovietico di Kabul da parte di Stati Uniti, Arabia Saudita e Pakistan gettò le basi per la creazione di un movimento integralista le cui attività avrebbero avuto effetti destabilizzanti ben al di là del paese centro-asiatico.

Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante ha le proprie origini nel vicino Iraq, dove gli Stati Uniti sostenevano di avere sconfitto le formazioni legate ad Al-Qaeda, ed in Siria opera prevalentemente nella zona settentrionale di Raqqah. Qui negli ultimi tempi sono stati segnalati duri scontri con i gruppi dell’opposizione più moderati che hanno causato decine di vittime anche tra la popolazione civile. Tra le ripetute proteste degli abitanti dell’area, lo Stato Islamico continua poi ad organizzare rapimenti, tra cui quello del gesuita italiano vicino all’opposizione, Paolo Dall’Oglio.

In definitiva, nonostante la propaganda dei media occidentali, i territori della Siria “liberati” dalla presenza del regime di Assad vengono in buona parte occupati da gruppi integralisti che impongono su una popolazione in larga misura ostile un sistema teocratico amministrato da leader e guerriglieri stranieri, i quali si dedicano allo stesso tempo ad una serie di attività criminali, compresi assassini ed esecuzioni.

Ben lontani dal sostenere una lotta per una Siria democratica, gli Stati Uniti e i loro alleati stanno quindi operando per abbattere un regime sgradito unicamente per promuovere i propri interessi in Medio Oriente tramite l’appoggio più o medo diretto a forze ultra-reazionarie legate al terrorismo islamico, contribuendo così in maniera determinante a creare una situazione sempre più esplosiva che avrà conseguenze gravissime sulla stabilità dell’intera regione.


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