di Michele Paris
Il capo di
Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, è stato protagonista questa
settimana di una trasferta in Medio Oriente dove ha incontrato i leader
politici e militari di due degli alleati più stretti degli Stati Uniti
nella regione. La visita in Israele e in Giordania dell’ufficiale più
alto in grado delle Forze Armate americane è apparsa a molti come la
prova generale di un possibile prossimo intervento diretto di Washington
per dare una svolta definitiva alla crisi in Siria.
Atterrato
lunedì in territorio israeliano, Dempsey ha incontrato il proprio
omologo Benny Gantz, il ministro della Difesa Moshe Yaalon e,
ovviamente, il primo ministro Benjamin Netanyahu. Secondo i comunicati
ufficiali, le discussioni sono state incentrate sulle “minacce che
vengono dalla regione e su come lavorare assieme per rendere più sicuri i
due paesi” alleati.
Netanyahu - capo del governo di un paese che
dispone dell’unico arsenale nucleare in Medio Oriente e che nella
propria storia ha ripetutamente aggredito militarmente i paesi vicini
senza essere provocato - ha inoltre ricordato a Dempsey come Israele
debba “fronteggiare numerose minacce”, tra le quali la più grande
sarebbe rappresentata dal nucleare iraniano.
In un vertice al
ministero della Difesa di Tel Aviv, Gantz ha invece sottolineato
ripetutamente la saldezza della partnership con gli Stati Uniti e
l’identità di vedute tra i due alleati riguardo la situazione
mediorientale, confermando come le azioni di Washington nella regione
continuino ad essere coordinate con i vertici israeliani.
L’importanza
delle questioni militari in relazione alla Siria era apparsa evidente
anche dalla visita in Israele del comandante dell’aviazione USA,
generale Mark Welsh, andata in scena segretamente tra il 4 e l’8 di
agosto in preparazione dell’arrivo di Dempsey. Welsh aveva anch’egli
incontrato Benny Gantz e il suo omologo israeliano, generale Amir Eshel,
con il qualche è stata probabilmente presa in considerazione una delle
misure di cui si parla da tempo nonostante le smentite
dell’amministrazione Obama, vale a dire l’imposizione di una no-fly zone
senza il mandato ONU in territorio siriano al confine meridionale.
La
seconda tappa del viaggio di Dempsey - la Giordania - risulta poi come
Israele una pedina fondamentale nella strategia americana in Siria,
soprattutto nell’eventualità di un’operazione militare su larga scala.
In questo paese sono infatti già posizionati centinaia di soldati USA,
nonché aerei F-16 e batterie di missili Patriot, tutti ufficialmente
pronti ad essere attivati per prevenire eventuali “minacce” provenienti
dal regime di Assad.
L’attenzione
sulla Siria alla vigilia della trasferta in Medio Oriente di Dempsey
era stata riportata qualche giorno fa da un’intervista ampiamente citata
del vice-direttore uscente della CIA, Michael Morrell, rilasciata al Wall Street Journal,
nella quale descriveva un eventuale successo in Siria delle forze
legate ad Al-Qaeda come la principale minaccia odierna alla sicurezza
nazionale degli Stati Uniti.
Le parole di Morrell, il cui senso
viene peraltro ripetuto da tempo da vari membri dell’amministrazione
Obama, sono state prontamente utilizzate allo scopo di promuovere ancora
una volta un maggiore coinvolgimento in Siria da parte americana per
evitare uno scenario catastrofico. In realtà, a provocare il caos in cui
versa il paese mediorientale sono state precisamente le politiche
dissennate degli USA e dei loro alleati che stanno finanziando e armando
formazioni fondamentaliste, utilizzate di fatto come avanguardie per
l’abbattimento del regime di Assad.
Lo stesso generale Dempsey in
Israele ha definito il conflitto in Siria come la conseguenza dello
“scatenarsi degli scontri religiosi, etnici e tribali”, senza spiegare
come quest’ultimo scenario sia stato alimentato precisamente dalle mire
imperialiste del suo governo in Medio Oriente, dove le storiche
divisioni settarie vengono puntualmente sfruttate proprio per promuovere
gli interessi strategici di Washington.
Per occultare questa
realtà imbarazzante e le loro responsabilità nell’avere contribuito a
crearla, esponenti del governo e dell’apparato militare americano come
Dempsey insistono nel sottolineare la necessità di sostenere le forze
“moderate” all’interno dell’opposizione siriana, anche se lo stesso capo
di Stato Maggiore USA ha ammesso che i gruppi “moderati” e quelli
“radicali collaborano gli uni con gli altri” nel combattere il regime di
Damasco.
Una simile caratterizzazione è sintomatica delle
apprensioni diffuse a Washington circa il futuro della Siria ma, in
effetti, non si avvicina nemmeno lontanamente alla realtà sul campo,
dove a prevalere sono le milizie islamiste radicali che beneficiano
degli sforzi economici e militari di paesi come Arabia Saudita, Qatar,
Emirati Arabi e Turchia, sotto la diretta supervisione di Washington.
Mentre
in Occidente si ripete da mesi la volontà di rafforzare gli elementi
secolari o moderati del fronte anti-Assad, praticamente ogni offensiva
che ha avuto successo contro le forze del regime ha visto come
protagonisti i gruppi radicali, comprese la recente occupazione di una
base aerea nei pressi di Aleppo e l’offensiva della scorsa settimana
nella provincia costiera di Latakia.
Dopo avere scritto a lungo
delle imprese del Fronte al-Nusra, i media occidentali nelle ultime
settimane hanno analizzato le attività di un’altra e, se possibile,
ancora più sanguinaria formazione estremista attiva in Siria, il
cosiddetto Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Quest’ultimo fa parte
della rete internazionale di Al-Qaeda ed è tra l’altro impegnato,
secondo quanto scritto un paio di giorni fa dal Washington Post,
nell’espansione della propria influenza “sui territori strappati ad
altri gruppi ribelli” grazie al supporto di migliaia di guerriglieri
stranieri provenienti dalla regione mediorientale e non solo.
La situazione che si sta delineando, come ha affermato sempre al Washington Post
Bruce Hoffman, direttore degli studi sulla sicurezza presso
l’università di Georgetown, potrebbe fare della Siria “una variante più
temibile di ciò che era l’Afghanistan più di tre decenni fa”, dove
l’impegno contro il regime filo-sovietico di Kabul da parte di Stati
Uniti, Arabia Saudita e Pakistan gettò le basi per la creazione di un
movimento integralista le cui attività avrebbero avuto effetti
destabilizzanti ben al di là del paese centro-asiatico.
Lo Stato
Islamico dell’Iraq e del Levante ha le proprie origini nel vicino Iraq,
dove gli Stati Uniti sostenevano di avere sconfitto le formazioni legate
ad Al-Qaeda, ed in Siria opera prevalentemente nella zona
settentrionale di Raqqah. Qui negli ultimi tempi sono stati segnalati
duri scontri con i gruppi dell’opposizione più moderati che hanno
causato decine di vittime anche tra la popolazione civile. Tra le
ripetute proteste degli abitanti dell’area, lo Stato Islamico continua
poi ad organizzare rapimenti, tra cui quello del gesuita italiano vicino
all’opposizione, Paolo Dall’Oglio.
In definitiva, nonostante la
propaganda dei media occidentali, i territori della Siria “liberati”
dalla presenza del regime di Assad vengono in buona parte occupati da
gruppi integralisti che impongono su una popolazione in larga misura
ostile un sistema teocratico amministrato da leader e guerriglieri
stranieri, i quali si dedicano allo stesso tempo ad una serie di
attività criminali, compresi assassini ed esecuzioni.
Ben lontani
dal sostenere una lotta per una Siria democratica, gli Stati Uniti e i
loro alleati stanno quindi operando per abbattere un regime sgradito
unicamente per promuovere i propri interessi in Medio Oriente tramite
l’appoggio più o medo diretto a forze ultra-reazionarie legate al
terrorismo islamico, contribuendo così in maniera determinante a creare
una situazione sempre più esplosiva che avrà conseguenze gravissime
sulla stabilità dell’intera regione.
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