Non c'è soluzione, per l'Unione Europea dell'”austerità espansiva”. Gli unici (utili) idioti che insistono sulla gestione della crisi fin qui adottata popolano le stanze di Bruxelles e Berlino, mentre a Francoforte almeno qualche domanda se la fanno e a Washington menano la danza.
Fuor di allusioni. Anche il Fondo Monetario internazionale (Fmi), buon ultimo, ha capito che senza investimenti pubblici non solo non ci sarà mai “ripresa”, ma neanche conservazione degli attuali livelli produttivi. Per non parlare dell'occupazione e della domanda (leggi: consumi) interna all'Europa a 28.
Il report del Fmi, sfrondato di tutti i diplomatismi, compresi i complimenti di prammatica alle intenzioni di Renzi (al Fondo non sono cretini: sanno che la gestione economica è in mano a Pier Carlo Padoan, appena uscito dal ruolo di capoeconomista dell'Ocse), dice una cosa semplice: per far decollare la crescita nell'Eurozona occorre «rafforzare la capacità del "centro" di finanziare i progetti di infrastrutture pubbliche».
Il ragionamento è da manuale di macroeconomia del primo anno: se gli investimenti privati latitano (specie in Italia, dove si preferisce ancora la delocalizzazione o il passaggio alla speculazione finanziaria), se le banche non erogano prestiti (perché hanno bilanci e casse alquanto dissestati), se i consumatori non consumano (perché perdono lavoro, diritti, salario)... l'unico soggetto che può fare qualcosa è lo stramaledetto “pubblico”. Ossia gli Stati. I quali, però, nell'Unione Europea sono stati espropriati della possibilità di fare investimenti in deficit e obbligati a tagliare la spesa pubblica (senza distinzioni tra tipi di spesa). Quindi non resta che “il centro” dell'Unione Europea, ovvero la Commissione. Oppure la Bce.
Che la Commissione si doti in tempi rapidi di una politica industriale comunitaria, nonché di un bilancio federale degno di questo nome e all'altezza di questo compito, è escluso. Se anche tutti i paesi fossero d'accordo – e non lo sono, Germania in testa – ci vorrebbero comunque anni per costruire gli strumenti adeguati e i meccanismi di contro/compensazione.
Non resta dunque che la Bce. La quale, però, ha gli stessi problemi della Commissione, a partire dal contributo “austero” e frenante della Bundesbank, e strumenti operativi più limitati. Può infatti solo modificare l'offerta di moneta, ma non obbligare – per esempio – le banche private a concedere prestiti. Può provare in questo modo a ridurre il valore dell'euro, ma tutte le altre banche centrali del pianeta stanno facendo la stessa cosa, in misura maggiore e con strumenti più aggressivi (non avendo contraddizioni interne o dipendendo esplicitamente dai rispettivi poteri politici).
Quindi il suggerimento del Fmi a Mario Draghi è un soffio che si limita a riproporre quel che lo stesso Draghi ha già previsto tra le misure a sua disposizione – l'acquisto di titoli di stato “periferici” sul mercato secondario – ma senza poterla attuare per l'opposizione del governatore di Bundesbank, Jens Weidmann.
Ma anche se potesse farlo domattina, l'unico effetto sarebbe un aumento dei prezzi di quei titoli di stato; il che comporta una riduzione dei rendimenti (ovvero degli interessi che gli Stati devono corrispondere ai sottoscrittori dei bond), quindi qualche miliardo in più da spendere altrimenti. Magari in investimenti, certo. O più probabilmente – visti i vincoli del Fiscal Compact – a riduzione del debito complessivo. Una non soluzione, insomma.
Lo sa anche il Fmi, che infatti insiste sulla necessità di modificare l'approccio complessivo adottato dall'Unione Europea: esiste «una preoccupazione che le regole di bilancio scoraggino gli investimenti pubblici». Un eufemismo per dire quel che tutti sanno: l'”austerità espansiva” non esiste, è una bufala anche sul piano accademico e scientifico, soprattutto produce effetti contrari a quelli propagandati. Ed anche se – diplomaticamente – continua a ritenere utili l'esplorazione «della possibilità di semplificare e rafforzare il quadro di governance di bilancio» dell'area euro, lodando le riforme finora fatte (la precarizzazione generale), tuttavia questo non serve più a nulla: «il sistema è diventato eccessivamente complicato con molteplici target e obiettivi». Una babele di trattati e codicilli che ha prodotto stallo invece che operatività. Un po' come la riforma del Titolo V della Costituzione italiana, varata nel 2001 dal solo centrosinistra prodiano, che introdusse la follia della “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni.
Su questa strada la Germania merkeliana dimostra di non voler muovere un passo. Niente acquisto di titoli di stato altrui, nessun ammorbidimento del Fiscal Compact, nessuna esclusione – neanche questo! – della spesa per investimenti produttivi dal computo generale della spesa pubblica. Al massimo, ha spiegato soltanto ieri, la Germani potrà favorire l'emissione di bond europei da destinare alla costruzione di grandi opere infrastrutturali. Ma soltanto dopo che tutti i paesi avranno completato le “riforme strutturali” e messo in ordine i propri bilanci, riducendo il debito. Tradotto: dopo che sarete morti vi daremo un'aspirina.
La “terza via” della svalutazione monetaria – in qualche modo accennata da Draghi con l'ultima disperata (e inutile) riduzione del tasso di interesse base e l'introduzione dei tassi negativi per i depositi presso la Bce – è sbarrata dalla competizione esistente (ma ignorata dall'Unione Europea) tra le diverse banche centrali. L'euro rimane così una moneta “forte” in modo abnorme, con alle spalle un'economia reale invece in deflazione.
La Federal Reserve statunitense continua a iniettare liquidità sul mercato, anche se in misura inferiore a prima, per mantenere basso il cambio del dollaro. Per proteggersi da questa svalutazione, la Cina sta accrescendo la dimensione dei suoi scambi commerciali pagati con altre monete (lo yuan, ovviamente, ma anche l'euro), cosa che “rafforza” involontariamente la divisa europea. Soprattutto perché l'universo di operatori internazionali che intrattiene con il Dragone rapporti commerciali o finanziari è a quel punto “invogliato” a procurarsi più euro e meno dollari. E anche questo “solleva” le quotazioni della moneta di Francoforte.
Del resto, infine, proprio la “strategia” immaginata per “attirare capitali di investimento stranieri” porta con sé la necessità che quei capitali in entrata vendano dollari per procurarsi euro da investire qui.
Il cerchio è chiuso e la soluzione – quella indolore, perlomeno – non si è fatta vedere. L'unica consolazione – molto relativa – è che anche la via della riduzione generalizzata dei salari, almeno nella media europea, è a questo punto una carta bruciata. Anzi, un danno auto inflitto. Ma non smetteranno di usarla, se noialtri non gli imporremo di farla finita.
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