di Chiara Cruciati
Una campagna senza
precedenti, una pioggia di firme e di tweet che non cessa. A quasi due mesi dal lancio, senza che il governo di Riyadh abbia dato alcuna
risposta, la mobilitazione online viene ripresa quotidianamente: le
donne saudite vogliono la fine del sistema di tutela maschile, del
cosiddetto “guardiano”. La petizione, che ha superato le 14.600 firme, è
stata inviata un mese fa a re Salman. A lanciarla era stata
l’attivista e ricercatrice Hala Aldosari e aveva subito ottenuto il
sostegno di organizzazioni, associazioni di base e singoli cittadini.
Il sistema in questione rientra a pieno titolo nella legislazione
della petromonarchia, fondata su un’interpretazione conservatrice e
fanatica dell’Islam, quel wahhabismo che della casa regnante di Riyadh è
pietra angolare e fondatrice. Non è un caso che moltissimi religiosi,
teologi e giurisprudenti musulmani considerino la nozione della tutela
maschile un’interpretazione patriarcale che non trova riscontro nel
Corano.
Secondo tale sistema, la donna è costretta ad ottenere dal
proprio “guardiano”, che può essere il marito, il padre, il fratello e
nel caso delle vedove il figlio, il permesso per vivere la propria vita:
uscire dal paese, ricevere cure mediche, sposarsi, lavorare, studiare,
chiedere l’emissione del passaporto e di qualsiasi altro documento di
identità, addirittura uscire di prigione alla fine della pena.
Sia nel 2009 che nel 2013 il governo saudita, sotto pressione del
Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, promise di abolirlo. Ma
lo ha mantenuto facendo passare qualche riforma, mero maquillage. Una
prigione sociale che arriva fino alla partecipazione politica: solo lo
scorso anno la petromonarchia ha votato la legge che riconosce alle
donne di votare. Ma il primo test elettorale ha mostrato tutti i suoi
limiti: le donne che sono riuscite a infilare la scheda
nell’urna hanno potuto farlo solo se accompagnate da un uomo, in seggi
ovviamente separati da quelli maschili, circostanza che spiega
perché hanno votato meno del 10% delle aventi diritto, 130mila donne su
un milione e mezzo.
«Le donne qui sono in trappola – dice una donna saudita, in condizione di anonimato, alla Cnn
– Non possono fare nulla, tutto dipende dal guardiano. Se è un
brav’uomo ti lascia lavorare, o studiare, che è un diritto fondamentale.
Se non lo è, te lo impedisce». Un destino che lega tutte le donne, a
prescindere dall’estrazione sociale, dalle condizioni economiche o da
quelle educative.
Cittadine a metà, cittadine di serie B, che oggi ricorrono ai
social media per sponsorizzare la propria causa: i due hashtag più
popolari di settembre e ottobre – #IamMyOwnGuardian (nato dopo la pubblicazione del rapporto della scorsa estate di Human Rights Watch) e #StopEnslavingSaudiWomen – hanno attirato l’attenzione di chi il cambiamento non lo vuole:
a settembre, a causa delle numerose segnalazioni contro gli account di
organizzazioni che hanno rilanciato la campagna, Twitter li ha
unilateralmente sospesi generando non poche proteste: il secondo
azionista della società californiana è il principe al-Waleed al Bin
Talab Bin Abdulaziz Al Saud, con il 5,2% delle azioni. Che hanno
funzionato: Twitter ha poi riattivato gli account dell’ong finita nel
mirino, S.A.F.E Movement, e del suo direttore Isaac Cohen.
Ma è nel paese che le resistenze sono più forti: il gran mufti
Abdulaziz al-Sheikh, la più alta autorità sunnita in Arabia Saudita, già
noto per aver emesso fatwa che definire controverse è poco, poche
settimane fa ha aspramente criticato qualsiasi tentativo di modificare
il sistema del guardiano, etichettando le campagne su Twitter come «un
crimine contro l’Islam e una minaccia esistenziale alla società
saudita»: «Si tratta di un appello diabolocio che va contro la Shari’a e
le indicazioni del profeta».
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