di Michele Paris
Uno dei
rarissimi momenti significativi del terzo e ultimo faccia a faccia tra
Hillary Clinton e Donald Trump, andato in scena nella notte di mercoledì
a Las Vegas, è stato probabilmente il ripetuto riferimento della
candidata Democratica alla Casa Bianca agli ex presidenti Repubblicani,
Ronald Reagan e George W. Bush, con l’intento di sottolineare le
differenze tra questi ultimi e il suo rivale. In questo modo, la ex
first lady ha cercato ancora una volta di convincere gli elettori e gli
ambienti di potere Repubblicani delle sue credenziali conservatrici, se
non reazionarie, che, infatti, hanno convinto da tempo numerosi
esponenti della galassia “neo-con” e dell’establishment militare ad
appoggiare pubblicamente la sua candidatura.
In effetti, durante
praticamente tutto il dibattito all’università del Nevada, Hillary ha
navigato gli attacchi di Trump e le domande di Chris Wallace di FoxNews,
moderatamente più incisive rispetto ai primi due “duelli”, nel
tentativo di conciliare le sue posizioni elitarie e guerrafondaie, a
malapena celate, con proclami vagamente progressisti e, soprattutto, con
appelli alle politiche identitarie.
Forse ancor più rilevante,
anche se tutt’altro che sorprendente, è stata poi la quasi totale
assenza di riferimenti al contenuto delle e-mail del capo della campagna
elettorale della candidata Democratica, John Podesta, pubblicate in
questi giorni da WikiLeaks. Le rivelazioni sono state a tratti
devastanti nel ritrarre una candidata al servizio di Wall Street
nonostante un’immagine pubblica costruita attorno alla difesa della
classe media americana.
In una sola occasione Chris Wallace ha
posto una domanda a Hillary sulle e-mail segrete, in relazione cioè
all’auspicio da lei espresso, in un discorso privato a una banca
brasiliana e pagato ben 225 mila dollari, di vedere “un mercato comune
nell’emisfero occidentale” senza confini e senza dazi.
In linea
con l’atteggiamento tenuto finora da tutto l’ambiente Democratico,
Hillary ha subito dirottato la discussione sulla responsabilità del
governo russo nell’avere violato account privati di posta elettronica
negli Stati Uniti, puntando il dito direttamente contro il presidente
Putin per essersi intromesso nelle elezioni americane a favore di Trump.
Proprio
sulla politica estera, l’ex segretario di Stato ha manifestato
apertamente le sue credenziali da “falco”. Riconoscendo che anche
l’amministrazione Obama, di cui ha fatto parte, è contraria alla
creazione di una no-fly zone sui cieli della Siria, Hillary ha
confermato la sua decisione a istituirne una dopo il suo ingresso alla
Casa Bianca.
Quando Wallace le ha fatto notare che, secondo lo
stesso capo di Stato Maggiore USA, generale Joseph Dunford, implementare
una no-fly zone in Siria comporterebbe probabilmente entrare in guerra
con la Russia, la Clinton ha attenuato di poco i toni, affermando in
maniera confusa che questa iniziativa dovrebbe essere il frutto di
trattative con gli stessi governi di Mosca e Damasco per proteggere la
popolazione civile.
Sulle
operazioni americane in Medio Oriente, Trump ha invece da parte sua
attaccato Hillary e Obama, ricordando più volte le responsabilità di
entrambi nel favorire il dilagare del fondamentalismo islamista in Iraq e
in Siria. Nel rispondere poi alle accuse della rivale circa la sua
attitudine troppo tenera nei confronti del Cremlino e i giudizi negativi
espressi sulla NATO, Trump non ha nascosto la disponibilità a
ristabilire rapporti sereni con Mosca e l’intenzione di sollevare gli
Stati Uniti dai compiti di difesa degli alleati.
Sugli altri
argomenti toccati dal dibattito, Hillary Clinton ha ostentato una
retorica “liberal” per differenziare le proprie posizioni da quelle al
limite del fascismo di Trump: dalla questione degli immigrati
all’intervento dello stato nell’economia, dal diritto all’aborto alla
salvaguardia dei rimanenti programmi pubblici di assistenza sociale.
Ciononostante, Hillary non ha contestato l’impostazione della
discussione data dal moderatore della serata su questi ultimi,
accettando la premessa della necessità di contenerne i costi per evitare
l’esplosione del debito pubblico.
Né Wallace né Trump, se non in
maniera marginale, hanno fatto notare come le promesse di stampo
progressista di Hillary contrastino clamorosamente con quanto da lei
sostenuto nei discorsi alle grandi banche rivelati da WikiLeaks. In
essi, la candidata Democratica ha sostanzialmente espresso la necessità
di distribuire un elenco di menzogne al pubblico per contenere il
malcontento e le tensioni sociali, mentre in realtà l’azione politica
deve essere rivolta ai grandi interessi economico-finanziari.
Verso
la fine del dibattito, dopo una tirata di Hillary sulla sua “missione”
da presidente a favore degli americani comuni e contro “gli interessi
dei potenti”, Trump ha fatto notare come la sua rivale stia
“raccogliendo denaro [per la campagna elettorale] da quelle stesse
persone che dice di voler tenere sotto controllo”.
I resoconti
del dibattito apparsi giovedì sui media americani hanno comunque
insistito su una dichiarazione di Trump, con la quale quest’ultimo si
sarebbe rifiutato di riconoscere la legittimità democratica delle
elezioni presidenziali. Il momento più citato dai giornali è avvenuto
quando la discussione è stata portata sulle parole pronunciate da Trump
nei giorni scorsi su un voto che potrebbe essere manipolato a favore di
Hillary.
Quando il giornalista di FoxNews ha chiesto se è
pronto ad accettare senza riserve il risultato delle elezioni, Trump ha
risposto che tutto dipenderà da come si svolgeranno e che, per il
momento, intende lasciare la “suspence” in merito alla sua decisione
sull’esito del voto. Trump ha poi elencato le presunte manovre in atto
per distorcere i risultati a favore della sua avversaria, alla quale, a
suo dire, dovrebbe essere impedito di correre per la Casa Bianca, visti i
crimini di cui si è macchiata.
Queste parole di Trump vanno
intese come un serio avvertimento circa la sua intenzione di creare un
movimento pseudo-fascista contro il sistema politico di Washington
partendo dal rifiuto di accettare elezioni in qualche modo truccate. In
questo scenario, la denuncia dell’irregolarità delle elezioni è
perfettamente coerente con la strategia di Trump di presentarsi agli
americani più penalizzati dalla crisi economica e dai processi di
globalizzazione come fattore destabilizzante di un sistema manipolato a
esclusivo favore dei poteri forti.
I suoi appelli alla
“working-class” emarginata hanno però un certo successo solo grazie al
vuoto della sinistra americana. Inevitabilmente, peraltro, le ricette
economiche di Trump combinano una sorta di nazionalismo economico,
alimentato dall’opposizione ai trattati di libero scambio che hanno
favorito il trasferimento dei posti di lavoro in altri paesi, a logori
cavalli di battaglia neo-liberisti, come il taglio delle tasse per le
grandi aziende e altri favori a queste ultime per innescare magicamente
una sostenuta crescita del PIL americano.
Alla fine della serie
dei dibattiti previsti tra i due principali candidati alla presidenza
degli Stati Uniti e a meno di tre settimane dal voto, la stampa
americana sostiene che una vittoria di Trump risulta poco meno che
impossibile, visti gli scenari delineati da quasi tutti i sondaggi
pubblicati nelle ultime settimane.
Se
l’immagine di Trump è già screditata dalla sua appartenenza al
sottobosco semi-criminale del business americano, gli attacchi della
stampa ufficiale, schierata pressoché interamente con Hillary Clinton,
hanno contribuito ad arrestare una rimonta che sembrava possibile
durante l’estate. La strategia utilizzata contro Trump è stata in larga
misura già utilizzata infinite volte per regolare i conti nella classe
dirigente americana, quella cioè di sollevare accuse di molestie
sessuali.
Il repentino e massiccio cambiamento di opinione dei
potenziali elettori, almeno come viene caratterizzato dai media
“mainstream”, appare però sospetto a molti, tanto più che è legato a
questioni di importanza secondaria rispetto a quelle cruciali in ballo
con il voto, legate all’economia, al welfare e, soprattutto, alla
guerra.
Rilevazioni di opinione di vari istituti indicano
comunque, se non un sostanziale equilibrio, almeno un vantaggio per la
Clinton non troppo superiore al margine di errore. Gli stenti della ex
first lady sono chiaramente dovuti sia alla persistente e più che
giustificata ostilità degli americani per una candidata che è
l’incarnazione stessa dei grandi interessi che dominano la politica
americana, sia all’ondata di risentimento nei confronti del sistema che
ha l’unica valvola di sfogo in un “non politico” populista di estrema
destra.
Se il risultato del voto dell’8 novembre prossimo sembra
già segnato, la peculiarità della campagna per le presidenziali forse
più degradante della storia americana e la ribellione latente contro
l’establishment suggeriscono tuttavia di non escludere del tutto, a urne
chiuse, qualche possibile clamorosa sorpresa.
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