Non siamo i primi, e neanche saremo gli ultimi, a ricordare che ci sono democrazie che finiscono in tragedia ed altre che finiscono in farsa. L’importante è individuare quale farsa è quella giusta, quella che, con il suo particolare svolgersi, sta esaurendo un regime democratico. E cambiare percezione: l’avvento del fascismo, così come ci è stato consegnato dalla storia del ‘900, è sempre un tema drammatico che sfocia nel tragico. Dall’avvento di Mussolini a quello di Hitler fino al colpo di stato dei colonnelli in Grecia e a quello di Pinochet. Epiloghi tragici che rappresentano efficacemente il volto oscuro, assetato di sangue del potere come principale, se non esclusiva, espressione di un regime autoritario.
Qui il dittatore se è ridicolo lo è a causa della satira non per via della percezione quotidiana. Oggi il fascismo rischia di far tornare qualcuna delle sue caratteristiche con lo scivolamento nel potere autoritario di farsa in farsa, di episodio grottesco in episodio grottesco. Episodi dove non è la forza materiale ad essere usata: è lo spettacolo grossolano ad essere impiegato come oggetto contundente per scardinare diritti. Episodi dove non c’è il confino, o il carcere, ma dove magari c’è tutta la libertà di Google di aspirare i nostri dati personali o di evadere il fisco pagando condoni light. Del resto il fascismo è stato spesso, nel ‘900, una metamorfosi delle democrazie: dalla monarchia costituzionale e parlamentare italiana alla repubblica di Weimar. Oggi il fascismo, quando c’è, sta dentro l’evoluzione di un prodotto delle democrazie: la comunicazione politica. Nelle esigenze di un premier di coprire tutte le piattaforme mediali, di togliere spazio alla concorrenza che vuol erodere spazio nei palinsesti, di inventare quella parola che funziona come killer application che azzera le invenzioni degli uffici stampa dei concorrenti di partito, dell’opposizione.
Certo la farsa è il linguaggio universale di questa renziana egemonia quantitativa nella copertura mediale a reti unificate. Renzi che imita Steve Jobs al Sant’Anna di Pisa, sostituendo i “folli” del discorso originale con un “arroganti” che è l’unico atto di autenticità del premier da quando fa discorsi in politica, ricorda i dittatori africani che imitavano grossolanamente le vestigia del potere occidentale. Loro straziavano la complessa antropologia del potere da cui provenivano, Renzi strazia, invece, le nostre orecchie. Certo, copiare il discorso di Steve Jobs togliendo la parola più visionaria, sostituendola con “arroganti”, rivela la cifra antropologica del potere renziano: nel tentativo grossolano di stupire con una provocazione si manifesta l’originaria ed ineliminabile matrice del bullo di paese. Perché il renzismo non ha visioni, se non acquistate all’estero o riciclate da un patriottismo da operetta, ma solo un minore e sgraziato desiderio di imporsi che tracima in ogni istante.
Siccome il cerimoniale, quello che vuole imporre linguaggi ormai logori da un lustro, non era certo finito allora Renzi è volato da Obama. Trasformando il presidente (uscente) degli Stati Uniti in un docile testimonial della campagna per il “Si”. Quando si dice che lo spettacolo della sovranità limitata, gli Usa che cercano ufficialmente di orientare il voto in Italia è roba da piena guerra fredda, rovesciato nella cerimonia di investitura di un uomo solo. Spettacolo grottesco, come il presepe dei personaggi renziani a corredo della cerimonia (la moglie, Benigni, Cantone, l’atleta paraolimpica), privo di originalità quanto non privo di pericoli. Per la democrazia, perché campagne promozionali del genere, eredità del berlusconismo più monotono, una volta occupati anche gli interstizi della comunicazione tendono a non avere una seconda fase. Quella del ritiro dagli spazi occupati. Se un critico d’arte, come è accaduto, non va in onda, fino al 4 dicembre, sul Caravaggio perché si è schierato per il no, e potrebbe essere inconsapevolmente testimonial contro Renzi, questo non è un problema contingente è un problema per la democrazia. Perché tutti i personaggi del presepe del Si debordano tranquillamente sullo schermo. E i grandi media sono importanti, la politica non deve confinarsi su Facebook: determinano chi ha potere o no nelle istituzioni. Oppure quanto sono squilibrati o meno i poteri, quelli che producono consenso.
La propaganda di Renzi è ossessiva perché quantitativa, tende a occupare ogni spazio piuttosto che a preoccuparsi di costruire le condizioni del colpo di genio. D’altronde il responsabile della propaganda di Renzi non è, fortunatamente, Joseph Goebbels ma Filippo Sensi un medianaccio dell’occupazione degli spazi della comunicazione politica. Ma gli effetti di tutte queste suggestioni di provincia (Steve Jobs, l’America, Obama) che si fanno comunicazione politica istituzionale sono molto pericolosi. Non tanto per il riferimento culturale, Steve Jobs è la negazione autoritaria del libertarismo tecnologico-visionario in cui si è formato, non ci aspettiamo di queste finezze da Renzi. Obama è in declino di audience da anni e non ci aspettiamo di queste valutazioni, il principale sembra avere troppa voglia di America, dallo staff di Renzi. Il pericolo sta nel combinato di poteri che comporta questa ossessiva occupazione degli spazi. Il mainstream, giornali e televisione, dipanano le loro notizie secondo i ritmi del dibattito politico legati alle apparizioni del presidente del consiglio.
La televisione, nello specifico, si presenta come una sorta di Renzi multicanale, salvo rare eccezioni, dove il messaggio del premier appare differenziato per target non certo per motivi di pluralismo politico. L’agenda politica del premier non è strutturata per dare centralità alle istituzioni deliberative, e tanto meno alla società reale, ma alle esigenze di propaganda. Ed ecco la dieta comunicativa: visita, con applausi, a inaugurazione, a occasione culturale, discorso ispirato da qualche parte in Italia poi incontro con un leader mondiale. E poi via si ricomincia da capo: stavolta è toccato a Obama la volta scorsa alla Merkel e a Hollande imbarcati su una nave militare al largo di Ventotene. Per uno spettacolo outdoor inutile per la politica estera ma utilissimo per la propaganda. In quest’ottica c’è anche la forte propaganda indiretta. Come per l’epoca della fine del berlusconismo, quando uscì un devastante Barbarossa con il cameo della partecipazione di Bossi, la fiction o il cinema italiano vengono in soccorso di chi presumono essere il vincitore. Ed ecco che ti spunta la fiction sui Medici. E, guarda caso, il premier si presenta, in pieno lancio della fiction sui Medici, agli stati generali della lingua italiana a Firenze.
Coincidenze? No. I Renzi studios lavorano per la propaganda diretta e quella indiretta. Per Renzi e per i Medici. Poi sui social media la gente si può anche sfogare. Tanto la maggior parte della assunzione di notizie e di immaginario, in un paese a forte invecchiamento demografico, avviene ancora oggi sui media tradizionali. Certo, il rigetto per tutta questa propaganda senza qualità è certificato dal ritardo di Renzi nei sondaggi rispetto al No. Ma, bisogna ricordare, che gli indecisi sono tanti. E che, di solito, se votano lo fanno per chi percepiscono essere cambiamento. Meglio se, oltre al cambiamento, anche rassicurazione. Scatta, in questo caso, qualcosa che li fa uscire dal guscio. Qui abbiamo lo spettacolo, mettiamo tra parentesi la qualità, sul cambiamento (Jobs, Obama) promosso in prima persona dal premier e quello indiretto sulla forza della tradizione (Medici). Vediamo se scatta di nuovo la fascinazione, quella che Renzi cerca, di quelle che fanno dimenticare l’aumento certificato INPS dei licenziamenti. Abbiamo dei dubbi ma tutto può accadere.
Per la comunicazione televisiva, reti pubbliche e buona parte di quelli private, è poi vietato ricordare figuracce del premier, contestazioni, voci fuori dal coro. Un continuo cinegiornale di altri tempi, quelli in cui le riprese erano core business dell’Istituto Luce, con il linguaggio 2.0, l’approccio multipiattaforma, il tocco crossmediale nei lanci di Twitter, le battute da liceali un po' spenti che non sanno come essere originali. Inoltre esiste un canale all news, 24 ore su 24, Rainews, completamente strutturato secondo le esigenze comunicative del premier: dai servizi ai banner che rendono notizia la lettura del mondo della propaganda renziana. Insomma un’occupazione del quinto potere monotona quanto pericolosa.
Quando il quarto potere, la stampa, nella maggior parte o fa parte del mainstream renziano, che manda osservazioni ai direttori di giornale via Whatsup, o sta attento a non debordare nelle critiche e nel dibattito sul referendum costituzionale questa occupazione del quinto potere e questa egemonia sul quarto, frutto delle esigenze di comunicazione politica, va sommata a cosa accade agli altri tre una volta completato il mosaico. Se vincesse il Si basta immaginare l’attuale assetto televisivo, al quale Mediaset ha già dato ampi cenni di gradimento, quello della stampa, governabile anche con i contributi pubblici, sommato ad un governo di nuovo centralizzato che detta legge su budget regionali, trasporti (si legga la riforma Delrio...), energia, comunicazione e grandi opere. Per non parlare di ricerca, scuola, università e cultura. Settori poveri quanto militarizzati dalla propaganda renziana. Un parlamento non solo di nominati, da chi comanda su tv ed egemonizza la stampa, ma con una maggioranza spropositata rispetto al reale numero dei voti ottenuti. E quindi un vero, rigido governo della minoranza, con i mezzi per continuare ad esserlo.
C’è maggiore spazio, nella riforma renziana, per i referendum? Vero, ma i referendum, come abbiamo visto per quelli sulle trivelle, si orientano con i blackout comunicativi. O, come per quello sulla costituzione, con le tempeste di propaganda quando il quorum non determina il risultato. Un vero problema della democrazia, ovunque, è la parità di accesso alle piattaforme mediali. Una riforma centralistica, solo in parte neoreferendaria, come quella renziana salda così i due poteri della comunicazione ed i tre dello stato in un prodotto di destra. Dove la minoranza, al netto della retorica, ha gli strumenti e le risorse per incidere nella società, privatizzando il privatizzabile, e il resto fa i post su Facebook (dove gli influencer di Renzi sono presenti). Inoltre ciò che appare come una forma referendaria, democrazia dal basso è uno strumento favorito dal renzismo reale. Ci riferiamo alle primarie che, in questa accezione renziana, sono un trasferimento secco del potere dal basso verso l’alto. Un plebiscito.
Renzi che imita, con sprezzo del ridicolo, Steve Jobs per evocare un carisma che non avrebbe nemmeno alla sedicesima reincarnazione, non deve solo far sorridere. Renzi che, come il piccolo imprenditore di provincia si compra, moglie e amici al seguito, il favore dell’amico americano non è solo patetico. E non deve rassicurare il fatto che un elemento essenziale dell’essere dittatore, il carisma, Renzi non lo ha o, al massimo, lo esercita su qualche gruppo sociale di sprovveduti. Sono i processi che si sono aperti – con la crisi della democrazia matura accelerata dal crack finanziario mai finito dal 2008 – che portano ad una sedimentazione di autoritarismi, mediali, politici, costituzionali. Inutile negarlo, il rischio di un prodotto simile al fascismo c’è, rivestito in forma democratica genere Croazia di Franjo Tudman, e non va sottovalutato. Perché se ne vedono le venature nel “progetto” comunicativo. Specie se gli elementi di questa sedimentazione, dalla comunicazione alla costituzione “riformata”, fanno sistema. Magari sistema santificato da una qualche emergenza che richiede pochi fronzoli e decisioni dall’altro (e dalle banche alle guerre in corso ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta). E se gli uomini del regime avrebbero le facce pallide di Lotti e Orfini questo non deve rassicurare. Ogni nuovo assetto politico ha le proprie particolarità e le proprie perversioni. Per questo il 4 dicembre è meglio che questa compagnia di giro sia costretta a ritrovare la strada di casa. Perché le esigenze di “comunicazione” del premier hanno già costruito di per sé un dispositivo mediale, diciamo, troppo sistemico. Persino Bottai, personaggio che va comunque tenuto lontano da ogni rivalutazione, su Critica fascista espresse preoccupazione per l’identificazione tra propaganda e cultura. L’allegro staff comunicativo di Renzi non ha di queste preoccupazioni, usa tutto l’utilizzabile in modo spregiudicato. E ha costruito qualcosa di pericoloso, che si annida all’interno della scatola rivestita dalla confezione della “democrazia che decide”, “che funziona” e “che taglia le poltrone”. Dalla neutralizzazione di questo dispositivo passa sicuramente un po' di salute per questo paese.
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