di Michele Paris
Una delle facce
assunte da Hillary Clinton in questa campagna per le presidenziali è
quella del difensore della classe media e dei lavoratori americani
contro l’enorme influenza che i ricchi e le grandi banche di Wall Street
esercitano sul sistema politico, economico e sociale degli Stati Uniti.
Anche un irriducibile sostenitore dell’ex segretario di Stato di Obama,
se in buona fede, non può però che considerare solo apparente questa
sua attitudine, viste le ben documentate affinità con i grandi interessi
economico-finanziari della candidata Democratica alla Casa Bianca.
Quegli
stessi miliardari americani che hanno consentito ai coniugi Clinton di
mettere assieme un’autentica fortuna personale sono infatti gli stessi
che hanno donato centinaia di milioni di dollari alla campagna di
Hillary, grazie ai quali quest’ultima ha potuto imporre una strategia
elettorale volta sostanzialmente a contrastare la percezione negativa
che ha di lei la maggioranza dei potenziali elettori.
Alcune
delle manovre messe in atto per assicurarsi l’appoggio dei ricchi
donatori nella primavera del 2015, cioè poche settimane prima
dell’annuncio ufficiale della sua partecipazione alle primarie
Democratiche per le presidenziali, sono state documentate dalla recente
pubblicazione da parte di WikiLeaks di migliaia di e-mail
private del direttore della campagna di Hillary, l’ex lobbista ed ex
capo di gabinetto di Bill Clinton, John Podesta.
In particolare, i
documenti mettono in luce come Hillary abbia anche formalmente rotto
con la sorta di codice “etico” volontariamente applicato da Obama alla
sua campagna nel 2012, con il quale intendeva rifiutare il sostegno
delle cosiddette “Super PAC”. Queste organizzazioni raccolgono denaro e
fanno campagna elettorale per un determinato candidato a patto che le
proprie azioni non vengano coordinate direttamente con lo staff di
quest’ultimo.
Le “Super PAC” sono proliferate negli ultimi anni
grazie a una sentenza del 2010 della Corte Suprema degli Stati Uniti –
“Citizens United contro Commissione Elettorale Federale” – che ha
spazzato via qualsiasi tetto alle donazioni che esse possono ricevere.
Come conferma lo stesso comportamento di Hillary e del suo entourage, i
rapporti tra il team dei candidati e le “Super PAC” sono piuttosto
stretti e, vista l’indulgenza delle autorità federali, la separazione
delle due entità si limita quasi sempre all’adozione di accorgimenti del
tutto inefficaci.
Ad ogni modo, i fedelissimi di Hillary non
ebbero molti dubbi nel marzo del 2015 circa la necessità di abbandonare
qualsiasi scrupolo morale per convincere i tradizionali donatori
Democratici a staccare assegni a cinque o a sei zeri a favore delle
“Super PAC” affiliate alla candidata alla Casa Bianca.
Fino al
settembre di quest’anno, lo sforzo del team Clinton ha permesso di
incassare un totale di 1,14 miliardi di dollari in contributi
elettorali, inclusi quelli andati nelle casse del Partito Democratico.
Donald Trump, da parte sua, ha raccolto invece 712 milioni, di cui 56
provenienti dal proprio patrimonio personale.
Sulle e-mail rese pubbliche da WikiLeaks ha condotto una ricerca il Washington Post,
secondo il quale almeno un quinto del denaro incassato finora da
Hillary Clinton e dalle “Super PAC” che la sostengono è arrivato “da
appena un centinaio di ricchi donatori e da organizzazioni sindacali”.
Molti dei primi, aggiunge il quotidiano della capitale americana, sono
stati “coltivati metodicamente negli ultimi 40 anni” da Bill e Hillary.
Il
primo donatore della ex first lady è il manager di “hedge funds”,
Donald Sussman (20,6 milioni di dollari), seguito dal “venture
capitalist” di Chicago, J.B. Pritzker (16,7 milioni), dal proprietario
della rete televisiva in lingua spagnola Univision, Haim Saban
(11,9 milioni), dal noto finanziere George Soros (9,9 milioni) e dal
92enne fondatore della linea dietetica SlimFast, Daniel Abraham (9,7
milioni).
L’analisi del Washington Post chiarisce come, a
partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando sono state
attuate nuove regole sui finanziamenti alla politica in seguito allo
scandalo Watergate, “nessun presidente [degli Stati Uniti] è stato
eletto con contributi così ingenti di ricchi finanziatori”.
Singolarmente,
non solo Hillary Clinton continua a criticare pubblicamente la sentenza
della Corte Suprema che ha spalancato le porte alle donazioni
illimitate alla politica americana, ma i suoi stessi ricchi finanziatori
sostengono che i milioni di dollari erogati in questi mesi servono
precisamente a favorire l’elezione di un presidente che ristabilisca
limiti severi alle donazioni elettorali.
In altre parole,
individui come Soros o Sussman verserebbero cifre da capogiro a Hillary
Clinton non perché il futuro presidente rappresenti i propri interessi,
bensì per sostenere un’azione legislativa che impedisca a
multi-miliardari come loro di influire sulla politica americana.
Anche una pubblicazione apertamente favorevole alla candidatura di Hillary, come il Post,
è costretta ad ammettere che l’ex segretario di Stato entrerebbe alla
Casa Bianca con un “grosso debito nei confronti di un gruppo di donatori
che hanno sostenuto lei e il marito per decenni”. La somma totale
stimata del denaro veicolato verso le campagne elettorali dei coniugi e
le loro iniziative “filantropiche”, attraverso la Clinton Foundation, si
aggira attorno ai 4 miliardi di dollari.
In maniera poco
sorprendente, le e-mail provenienti dall’account di John Podesta
descrivono discussioni all’interno del team Clinton sui problemi di
immagine di una candidata legata a doppio filo con Wall Street e le
accuse di “ipocrisia” nei suoi confronti. Le difficoltà a spacciare
Hillary come una candidata realmente interessata alle condizioni delle
classi più disagiate era tale che, ad esempio, un membro del suo staff
nel maggio del 2015 affermava come la sola presentazione di proposte di
legge, volte a limitare l’influenza sulla politica dei poteri forti,
poteva non essere sufficiente, ma anzi rischiava di essere
controproducente vista la palese “dissonanza” tra parole e fatti.
Ciò
non ha impedito comunque la formulazione di una strategia di raccolta
fondi definita frenetica dagli stessi uomini dello staff di Hillary
Clinton. Per la direttrice della comunicazione della campagna
elettorale, Jennifer Palmieri, l’importante era “prendere il denaro”,
mentre il capo dell’intera organizzazione, Robby Mook, si diceva
disposto a fare i conti con qualsiasi attacco politico pur di
assicurarsi contributi milionari.
Già nell’aprile del 2015 erano
poi allo studio modalità di interazione con le “Super PAC” pro-Hillary, a
cominciare da Priorities USA, per eludere le regolamentazioni di legge
che vietano il coordinamento con la campagna elettorale dei candidati.
Gli stratagemmi escogitati a questo scopo sono spesso ridicoli e la
dicono lunga sull’attitudine a vigilare sul rispetto delle norme
relative ai finanziamenti elettorali da parte delle autorità federali.
Ad
esempio, dal momento che i membri dello staff di Hillary non potevano
indicare ai colleghi di Priorities USA quali cifre erano disposti a
sborsare determinati donatori, si comunicava che un noto finanziatore
Democratico, “impiegato nell’industria finanziaria”, era probabilmente
disponibile a “contribuire con [una somma a] sei cifre” a favore della
“Super PAC”.
Il Washington Post indica anche come
un’altra “Super PAC”, battezzata Correct the Record e dedicata appunto a
“corregge gli attacchi ingiustificati” contro la candidata alla Casa
Bianca dei suoi rivali, coordinava invece le proprie iniziative
direttamente con lo staff di Hillary perché sfruttava un’esenzione di
legge prevista per i blog.
Ai donatori, però, i vari gruppi che
fanno campagna per Hillary venivano spesso presentati come “pezzi di un
unico progetto”. I responsabili di Priorities USA sollecitavano così
donazioni presentandosi come rappresentanti di un’organizzazione
direttamente affiliata alla campagna di Hillary. John Podesta, da parte
sua, durante gli incontri con i ricchi finanziatori del Partito
Democratico non mancava di chiedere contributi sia per la campagna di
Hillary sia per le “Super PAC”.
Oltre a quella del Washington Post,
altre indagini di giornali americani nei giorni scorsi hanno
evidenziato il sostegno ricevuto da Hillary Clinton all’interno della
classe dei super-ricchi d’America. Al contrario di quanto era avvenuto
nel 2012, quando Wall Street aveva mostrato di preferire Mitt Romney a
Obama, in questa occasione la candidata Democratica sembra avere
maggiori credenziali in questo senso rispetto a Donald Trump.
Il Wall Street Journal
ha scritto che finora la Clinton ha ricevuto direttamente per la sua
campagna elettorale 70 milioni di dollari da 19 miliardari, contro 18
milioni da 5 miliardari finiti nelle casse del rivale Repubblicano.
A
conferma degli orientamenti dell’élite finanziaria americana, qualche
giorno fa l’amministratore delegato di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein,
ha di fatto appoggiato pubblicamente la candidatura di Hillary Clinton.
Questo colosso di Wall Street è storicamente molto legato alla famiglia
Clinton e nel 2013 pagò a Hillary ben 675 mila dollari per tre discorsi
tenuti di fronte ai propri impiegati.
Oltre a quello
dell’industria finanziaria, la ex first lady ha ottenuto il sostegno
infine di centinaia di membri ed ex membri dell’apparato militare e
dell’intelligence degli Stati Uniti, molti dei quali noti “falchi” e
sostenitori delle avventure belliche americane degli ultimi quindici
anni.
In un’elezione tra due delle personalità pubbliche più
odiate, dunque, Hillary Clinton è senza alcun dubbio la candidata di
gran lunga preferita dall’establishment politico, economico e militare.
Trump, al contrario, continua a suscitare gravi preoccupazioni a causa
della sua imprevedibilità, dell’attitudine troppo conciliante mostrata
nei confronti della Russia e delle tensioni sociali che potrebbero
esplodere in seguito all’ingresso alla Casa Bianca di un presidente dai
tratti apertamente fascisti.
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