Tutte le manifestazioni e le riunioni pubbliche saranno vietate nella capitale turca Ankara fino al 30 novembre prossimo. Lo ha deciso il governatore locale per "garantire la sicurezza della popolazione e l'ordine pubblico" grazie alle prerogative speciali concesse alle autorità dallo stato d'emergenza in vigore dal luglio scorso. Secondo informazioni di intelligence, si legge nel provvedimento, "organizzazioni terroristiche stanno preparando attacchi nella nostra provincia".
Intanto continuano senza sosta le purghe contro gli oppositori.
Nei giorni scorsi le autorità giudiziarie turche hanno emesso 3 nuovi mandati d'arresto nei confronti di altrettanti giornalisti accusati di legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Oggetto del provvedimento sono l'ex direttore dell'edizione inglese di Zaman, Bulent Kenes, già ricercato; Abdulkerim Balci, ex editorialista del quotidiano, e Semseddin Efe, commentatore per la tv Samanyolu. Sia il quotidiano Zaman che l’emittente televisiva Samanyolu rientrano nel lungo elenco di media chiusi dopo il fallito putsch del 15 luglio scorso. In base all'ultimo report diffuso dall'osservatorio per la libertà di stampa turco “P24”, i giornalisti attualmente in galera in Turchia sono almeno 127.
Ancora, un tribunale di Istanbul ha convalidato l'arresto di 61 poliziotti, fermati nei giorni scorsi con l'accusa di legami con la presunta rete golpista dell’imam esule negli Stati Uniti, a lungo padrino di Erdogan e poi suo acerrimo nemico. L’accusa nei loro confronti è di aver utilizzato ByLock, una app di messaggistica per smartphone che, secondo il regime, era lo strumento usato dai golpisti per scambiarsi informazioni criptate.
Come se non bastasse, il ministero dell'Educazione turco ha sospeso altri 2.400 dipendenti, sempre con l’accusa di essere legati a Gulen. Dal fallito golpe del 15 luglio, almeno 32mila persone sono state arrestate e oltre 80 mila licenziate o sospese dalle pubbliche amministrazioni.
Meglio è andata ad alcuni giudici e procuratori. Il Consiglio supremo dei giudici e procuratori turchi (Hsyk) ha reintegrato in appello 198 dipendenti che nelle scorse settimane erano stati rimossi con l'accusa di essere legati alla rete golpista. Secondo le cifre rese note dallo stesso ‘sultano’ Erdogan, il totale dei magistrati turchi cacciati dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio è di ben 3.456.
Nel frattempo il regime prosegue spedito verso una ‘riforma’ della Costituzione in senso presidenzialista, progetto che Erdogan persegue da molti anni e che proprio il potere assoluto conquistato grazie al fallimento del maldestro tentativo di colpo di stato gli sta permettendo di mettere in atto.
"Se il Parlamento mette la questione in agenda e prende una decisione rapida, il referendum (sul presidenzialismo in Turchia, ndr) potrebbe essere proposto al popolo rapidamente, anche prima di primavera" aveva annunciato nei giorni scorsi il ministro della Giustizia di Ankara, Bekir Bozdag. Poi il vice-presidente del partito al potere, l’islamo-nazionalista Akp, Hayati Yazici, ha specificato che la proposta di ‘riforma costituzionale’ composto di una dozzina di articoli potrebbe essere discussa in parlamento già a gennaio e approvata a furor di popolo nell’aprile del 2017.
Il progetto di “riforma” è tornato al centro del dibattito dopo che il partito di estrema destra nazionalista, l’Mhp, teoricamente all’opposizione, ha concesso recentemente un'apertura verso l'approvazione in Parlamento della relativa modifica costituzionale, garantendo così all'Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan, che dispone di soli 317 deputati, la maggioranza necessaria di 330 deputati (sui 550 totali) per sottoporre il testo ad un referendum popolare. Se l’Mhp non farà mancare il suo sostegno e una popolazione turca entusiasta o atterrita dirà si alla consistente estensione dei poteri presidenziali, Erdogan potrà ottenere per via legale e costituzionale il ruolo che attualmente ricopre in virtù dello stato d’emergenza appena prorogato di parecchi mesi.
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