La battaglia per Mosul prosegue con la lenta ma continua avanzata del
composito fronte anti-Isis verso il capoluogo della provincia di
Ninawa. Ad emergere in questi giorni sono due elementi: la fuga
dei civili, di chi riesce a superare le linee islamiste, fatte di
cecchini e campi minati; e l’uso sempre più frequente di armi chimiche
da parte del “califfato”.
Un dato che non va sopravvalutato: al di là del numero di feriti e
morti che ha già provocato (centinaia le persone che hanno sofferto per
l’inalazione di gas), simili armi mostrano ancora una volta la potenza
di fuoco dell’Isis. Non certo casuale: oltre agli
equipaggiamenti militari confiscati alle forze irachene nel 2014, per
anni lo Stato Islamico ha ingurgitato ingenti armamenti provenienti dal
Golfo, via Turchia, di elevato livello tecnologico che apre alla
responsabilità diretta di certi soggetti regionali nella
destabilizzazione dell’area. Ieri le Unità di Mobilitazione
Popolare, le milizie sciite, hanno denunciato il sequestro di munizioni
in possesso degli islamisti e di provenienza turca e saudita.
L’esercito iracheno si è portato, intanto, a poco più di 30 km da
Mosul, riprendendo i villaggi di Nana e Staff al-Tut e la base militare
di Janin, a est della città. A protezione delle comunità liberate, fa
sapere il generale al-Jabori, sono state poste le milizie delle tribù
locali sunnite. Da Erbil arrivano contraddittori segnali di distensione: il
primo ministro del Kurdistan iracheno, Nerchivan Barzani, ha detto che
le forze peshmerga non entreranno a Mosul per evitare l’esplosione di
ulteriori settarismi.
Allo stesso tempo, però, Barzani ha avvertito Baghdad:
l’amministrazione della città dovrà essere discussa dalle diverse anime
del fronte anti-Isis. Parole che svelano il timore che assilla
molti in queste settimane di controffensiva, il possibile conflitto
futuro intorno alla seconda città irachena, rivendicata da più di un
attore, con l’incendiaria Turchia in prima fila. Ma ci sono anche le
forze vicine all’Iran: ieri le milizie sciite hanno annunciato
l’apertura di un nuovo fronte, il lancio di un’offensiva a ovest di
Mosul. Da Qayyara, a sud, verso Tal Afar, roccaforte islamista sul lato
ovest del capoluogo: una mossa che, se dovesse funzionare,
porterebbe all’accerchiamento dell’Isis finora attaccato a nord dai
peshmerga e a sud e est dalle truppe governative.
Ad accompagnare screzi e avanzata militare sono le barbarie dello
Stato Islamico, messo all’angolo. Mentre i leader militari se la danno a
gambe e fuggono nella siriana Raqqa, i miliziani blindano la città e
reprimono con inaudita violenza ogni forma di resistenza o rivolta. Dopo
l’esecuzione di quasi 300 giovani e uomini, gettati in una fossa comune
nell’ex facoltà di Agraria di Mosul, e l’uccisione di una 60ina di
miliziani accusati di voler ordire un golpe, l’Isis ha compiuto
una nuova strage: ha rastrellato decine di prigionieri nei villaggi
vicini, per lo più ex membri dell’esercito iracheno o della polizia, e
li ha giustiziati. Contemporaneamente porta via intere famiglie
dalle periferie per usarle come scudi al momento della guerriglia
urbana con il fronte anti-Isis.
Chi può fugge, a piedi, con poche cose con sé. Circa 16mila persone,
dice l’Onu, sono riusciti a lasciare i dintorni della città. Mille di
loro sono state evacuate dalle forze di élite, dal contro-terrorismo
iracheno, mentre nuovi campi vengono messi in piedi dalle organizzazioni
internazionali. Per ora la fuga di massa attesa dalle Nazioni Unite non
si è ancora registrata, ma il tempo stringe: il milione e mezzo di
persone ancora a Mosul non riesce ad andarsene, se non pagando
miliziani-trafficanti che li accompagnano fuori dalla città attraverso
campi minati e trincee. Ma sono pochissimi. Gli altri sono sotto il
controllo continuo e capillare dei miliziani che sanno che la
popolazione civile è la migliore difesa.
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