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24/10/2016

No al Ceta. La Vallonia resiste (per ora)

L'Unione europea e il Canada decideranno questa sera se confermare o meno il summit previsto per giovedì per la firma del Trattato di libero scambio (Ceta). "Domani (…) il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk avrà una conversazione telefonica con il primo ministro canadese Justin Trudeau, per decidere se confermare il summit" ha informato una fonte dell’Unione Europea all’agenzia France Presse.

Nei giorni scorsi sia dal Canada sia da Bruxelles erano giunte numerose reazioni scomposte alla decisione del governo belga che, di fronte al ‘no’ al trattato confermato dal presidente della Vallonia, si era detto impossibilitato a dare il proprio assenso a quello che nei fatti è un precursore dell’altrettanto contestato Ttip, il Trattato di Libero Commercio tra Ue e Stati Uniti.

La ministra del commercio con l'estero del Canada, Chrystia Freeland, non aveva nascosto la sua ira. "Sembra ovvio a me, e al Canada, che l'Unione Europea è incapace di arrivare ad un accordo internazionale, anche con un paese come il Canada che è di grande valore per l'Europa, e con un paese paziente come il Canada" aveva detto l’esponente liberale.

La Commissione europea aveva riconosciuto nei giorni scorsi il serio stop impresso alle trattative dal diniego della Vallonia ma aveva affermato anche di essere convinta che il negoziato non fosse saltato in modo definitivo.

Poi però dalla regione francofona del Belgio – il cui parlamento, insieme a quello della regione di Bruxelles, ha respinto a stragrande maggioranza l’accordo – era arrivata una nuova doccia fredda. Il presidente della Vallonia, il socialista Paul Magnette, aveva affermato di giudicare “insufficiente” le piccole modifiche apportate al testo dai negoziatori nel tentativo di rendere il trattato digeribile almeno ai settori più moderati del fronte critico.

Poi oggi, di nuovo, il presidente del parlamento regionale della Vallonia, Andrè Antoine, ha dichiarato che “non sarà possibile rispettare l’ultimatum” del Consiglio Europeo fissato per stasera sulla firma dell’Accordo economico e commerciale globale (Ceta).

Questo mentre continuano in maniera febbrile i negoziati e le istituzioni dell’Unione Europea stanno operando forti pressioni sui dirigenti belgi e valloni affinché rimuovano il loro ‘no’ alla firma dell’accordo. Il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, con l’appoggio del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, ha incontrato a Bruxelles la signora Freeland e poi il ministro-presidente della Vallonia Paul Magnette, nel tentativo di convincerlo a sbloccare la firma. La costituzione belga prevede infatti che le diverse entità amministrative in cui è suddiviso il paese diano il loro benestare affinché il governo federale possa firmare il trattato a nome del Belgio, consentendo così all’Unione Europea di far entrare in vigore il Ceta in maniera ‘provvisoria’ in attesa di una ratifica da parte di tutti i parlamenti che evidentemente finora è stata considerata poco più di un pro forma.

Una bella gatta da pelare per l’Unione Europea anche perché, senza l'approvazione dell'accordo commerciale con Canada anche il Ttip, già molto discusso e contestato, andrebbe definitivamente in soffitta. Per non parlare di un altro trattato, di cui si sa poco e niente, il cosiddetto Accordo di Associazione Strategica tra Canada e Unione Europea, complementare al Ceta.

«Vogliamo un trattato che garantisca la più elevata delle protezioni sociali» insiste Magnette, esponente della sinistra socialdemocratica che fa della critica – almeno verbale – nei confronti delle multinazionali e del liberismo e di una più equa distribuzione delle ricchezze un proprio cavallo di battaglia. Oltre alle forze di sinistra, ad alcuni sindacati e forze sociali che contestano il Ceta – e ancora di più il Ttip – perché concederebbe un sostanziale strapotere alle multinazionali contro i diritti dei lavoratori, degli agricoltori e allevatori, e dei consumatori, bypassando le leggi nazionali attraverso corti di arbitrato costituite ad hoc ad uso e consumo delle grandi imprese multinazionali, anche molti settori imprenditoriali e pezzi stessi dell'architettura europea non vedono di buon occhio una trattativa giudicata "a perdere".

Per la stessa ragione per cui nei mesi scorsi Francia e Germania hanno dato un chiaro stop al negoziato sul Ttip: partito come un trattato che doveva favorire le imprese e i cosiddetti mercati a spese della protezione del lavoro, dell’ambiente e della salute, a reciproco vantaggio delle due parti e come strumento di comune competizione nei confronti di altri blocchi geopolitici, tanto il Ceta quanto il Ttip si sono rivelati due strumenti attraverso i quali Washington e i suoi satelliti tentano di infliggere un colpo micidiale agli interessi e alle prerogative della borghesia europea. E così l’atmosfera è cambiata e gli ostacoli da parte europea si sono progressivamente moltiplicati.

A non convincere i valloni, e non solo loro, è in particolare la clausola del CETA sulla protezione degli investimenti esteri. Il punto più controverso è quello delle corti di arbitrato per risolvere controversie tra imprese e Stati. La Vallonia vuole maggiori garanzie per evitare «la dominazione delle multinazionali» insiste Magnette.

Ma qualche intoppo viene anche dalla Germania. Il Tribunale Costituzionale di Berlino ha sentenziato che il governo federale debba adottare le misure necessarie affinché solo le parti del Ceta che non sono di competenza statale possano essere attivate in via provvisoria nel caso in cui il Consiglio dei Ministri europei conceda luce verde, all’unanimità, alla firma. Come se non bastasse, il governo sloveno denuncia che l’accordo con il Canada darebbe un ulteriore impulso alla privatizzazione dell’acqua proprio ora che Lubiana intende inserire nella propria costituzione la tutela del carattere pubblico di questo bene comune, mentre da Varsavia fanno stizzosamente notare che il testo dell’accordo in inglese e quello tradotto in polacco sono assai diversi.

Alla fine, viste le enormi pressioni e il carattere non certo antisistema del suo partito, Magnette potrebbe decidere di dare all’ultimo minuto il proprio assenso alla firma del trattato. Non prima però di aver raggiunto qualche altro risultato e di aver portato a casa qualche piccolo cambiamento che possa permettergli di vantare una qualche vittoria da opporre alle scontate proteste dei sindacati, delle forze di destra che invocano il protezionismo e soprattutto delle sinistre radicali; nell’assemblea regionale il comunista Partito del Lavoro e l’estrema sinistra possono contare ora su un 5.7%, quota che secondo i sondaggi potrebbe salire anche al 9%. Dimostrando la sua capacità di valorizzare il ruolo della Vallonia all’interno dell’Unione Europea a livello interno, inoltre, Magnette mirerebbe a rafforzare le posizioni di un partito socialista al governo in Vallonia ma all’opposizione nel parlamento federale belga. Ciò in un momento in cui la regione francofona del Belgio è scossa da una profonda crisi economica: la chiusura delle acciaierie Arcelor-Mittal due anni fa e l’annuncio della chiusura dello stabilimento della Caterpillar stanno consegnando decine di migliaia di lavoratori delle grandi imprese e dell’indotto alla disoccupazione senza che l’Unione Europea stia muovendo un dito per evitarlo.

Intanto però, la natura profondamente antidemocratica dell’impianto europeista emerge di nuovo in tutta la sua evidenza, così come era accaduto a giugno con il referendum britannico sulla Brexit. Se allora gli strali dei think tank europeisti si erano concentrati sugli ignoranti (in molti discorsi identificati con i proletari) e sugli anziani inglesi, rei di aver scelto di uscire dall’Europa unita, stavolta il leit motiv mainstream prende di mira il fatto che ad una piccola regione come la Vallonia – 3 milioni e mezzo di abitanti appena – sia consentito di bloccare i piani e gli appetiti di un vasto blocco multinazionale come l'UE.

Eppure una volta le cosiddette ‘piccole patrie’ piacevano ai piani alti. Ora che alcune entità territoriali, esprimendosi attraverso l’esercizio di quella democrazia seppur formale che il progetto di unificazione europea vorrebbe mandare definitivamente in soffitta (si veda il referendum italiano del 4 dicembre), rischiano di mandare all’aria i progetti delle oligarchie continentali (per quanto controversi), il discorso del ‘piccolo è bello’ sembra aver perso l'appeal di una volta.

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