Il vertice Ue nella cittadina
belga è servito quindi a lavorare su un simbolico, dopo la cerimonia sui
70 anni dallo sbarco in Normandia composto per lanciare un preciso
messaggio: nell’Europa della pacificazione dalle guerre ci si unifica
per un futuro di crescita e prosperità. Un messaggio più da anni ’50 che
da secondo decennio del 2000. In verità, infatti, il vertice
di Ypres è preda di un altro simbolismo. Quello che vuole che i vertici
siano snodi di un altro genere di guerra, quella finanziaria, che crea
distruzioni considerevoli quanto quelle sul campo. Basta dare uno
sguardo allo storico del Pil italiano dall’unità ad oggi. Ci sono
similitudini con il Pil del ’14, l’altro quello del ‘900, e record di
recessioni consecutive o ravvicinate raggiunti nemmeno nei periodi di
turbolenza bellica. Ma deve essere il destino di Ypres: allora era uno
snodo verso l’accesso al mare, e quindi l’attacco all’Inghilterra via
Manica, oppure, in ottica alleata, per la controffensiva che avrebbe
potuto portare direttamente in Germania. Oggi si è rivelato uno snodo
strategico per l’attacco all’Inghilterra, e al suo dedalo di
interessi, oppure alla Germania maggiormente legata, perché capace di
esercitare egemonia, alla governance Ue.
Gli effetti della guerra finanziaria,
che ha trovato la sua ultima tappa a Ypres, certo sono meno
tragicamente spettacolari di quelli di diecimila soldati che saltano, in
un colpo solo, grazie alla dinamite nascosta nei tunnel. Ma di sicuro
aprono a nuove turbolenze, non solo digitali, con nuovi effetti diffusi e
concreti sulle popolazioni europee. La battaglia di Ypres del
2014 sancisce infatti un principio importante: il presidente della commissione europea viene eletto a maggioranza politica, quella emersa
dal parlamento di Strasburgo, senza il principio dell’accordo tra stati.
Negli anni precedenti era ormai emerso, con maggior chiarezza dopo la
crisi Lehman, che l’edificio della governance europea mostrava ormai una
crepa principale. Quella tra le esigenze della governance multilivello
- quella che si esercita tra moneta, concorrenza e regolazione economica
neoliberista - e gli accordi interstatali dove emergevano anche le
esigenze del singolo stato nazionale. E, si badi bene, tra queste
esigenze non c’è mai stato solo un aspetto di difesa corporativa ma
anche di concretezza dei diritti. Non a caso la Germania mantiene vivo
il rito del primato della corte costituzionale di Karlsruhe come
decisore in ultima istanza sulla legittimità degli accordi europei
mentre all’Italia è toccato votare il pareggio di bilancio in
costituzione, vero attacco alla giugulare della carta del ’48.
Quindi che l’elezione di Juncker
sia il ripristino della sovranità popolare continentale, tramite il
voto del parlamento europeo, può solo crederlo qualcuno in volenteroso
stato di allucinazione. E non solo perché le percentuali di non
voto al parlamento di Strasburgo toccano quasi il 60 per cento, perché
la strutturazione di partiti e sindacati continentali è debole o perché
la cosiddetta società civile in Europa è un gigantesco pulviscolo di
associazioni, in concorrenza tra loro, al massimo alla ricerca di una
nicchia per un qualche finanziamento. Ma soprattutto perché il principio
del voto a maggioranza, se replicato dopo l’elezione di Juncker, viene
esercitato per uno scopo ben preciso: sciogliere il nodo gordiano tra
interessi nazionali, specie quando in questi si annidano i diritti
concreti universali contenuti nelle costituzioni (welfare, istruzione,
beni comuni), e governance europea a favore di quest’ultima. E qui, visto che questa battaglia di Ypres l’ha persa l’Inghilterra, che non è riuscita a fermare Juncker, ci si deve fermare su un dettaglio non da poco.
Mettendo tra parentesi il ruolo
speciale che il neoliberismo britannico gioca in Europa. Il principio
delle decisioni a maggioranza, se replicato in Europa, servirà a
smantellare non solo i veti corporativi ma anche quelli che contengono
corposi diritti a livello nazionale. Certo, in Inghilterra si è
aperto un dibattito tutto incentrato sul futuro Ue della Gran Bretagna.
Sul ruolo dell’industria, che nel continente esporta, della finanza
(che in UK produce metà del Pil) e sulle politiche della Banca di
Inghilterra in rapporto alla Bce. Ma la sconfitta di Cameron, e
il passaggio del principio di decisione Ue a maggioranza, porta una
conseguenza storica e un effetto collaterale.
La conseguenza storica è
semplice da osservare: la governance europea, con tutti i suoi livelli,
ora colma i deficit di legittimazione con un più stretto legame con il
parlamento europeo. La governance ha così una legittimazione più
politica, il parlamento una maggiore integrazione con la commissione.
Gli interessi sovranazionali che passano a maggioranza, rispetto alle
esigenze e ai veti dei singoli stati, se mantengono questa forma
decisionale non rappresenteranno quindi un cambiamento da poco.
L’effetto, la vittima collaterale si chiama Matteo Renzi.
L’attuale presidente del consiglio già dalle primarie aveva insistito
con la revisione dei parametri di stabilità. Per dare ossigeno alle
politiche di bilancio, rendendole meno restrittive, e per trovare spazio
per investimenti. Non ha ottenuto assolutamente nulla:
nonostante sia stato lanciato, alla vigilia del vertice, dal Financial
Times come campione del rigore anti-Merkel si è presto accodato ai
desiderata della Germania. Non tanto, e non solo, sul nome di
Junker ma proprio sulle politiche di austerità. Potenza delle necessità
del capitale europeo. Dalle stesse parole di Del Rio si capisce che
Renzi ha ottenuto solo uno sconto sul cofinanziamento, da stornare, sui
fondi europei destinati all’Italia. Non molto, anche se sono 7 miliardi,
specie se si considera che il rinvio del pareggio di bilancio, chiesto
da Padoan, è stato bocciato dalla Ue. Basterebbe questo
dettaglio per capire che Renzi non ha ottenuto nulla: non ti danno
flessibilità nell’interpretazione dei parametri Ue se ti bocciano la
richiesta di rinvio del pareggio di bilancio. Non a caso il
ministro Del Rio, subito dopo la sconfitta di Renzi a Ypres (o meglio la
sua caduta come effetto collaterale della sconfitta di Cameron) ha
cominciato a chiedere Eurobond per socializzare il debito europeo e far
spendere meno all’Italia in termini di interessi. Ma giusto per trovare
un qualche argomento, per rinviare al futuro il problema di una gabbia
del rigore che l’Italia non può combattere quando vuole e non vuole
combattere quando può. Ma la Germania, soprattutto con i suoi istituti
di credito, è nettamente contraria a quest’ipotesi.
Non resta quindi, a Renzi, che ripetere il mantra delle riforme “per ottenere flessibilità”. Per
uno che era partito baldanzosamente, già dalla Leopolda, per ottenere
flessibilità, in cambio di riforme, siamo all’esatto contrario di quanto
desiderato. Una sconfitta che non si trova però nel
mainstream televisivo ridotto a istituto Luce versione digitale come
nemmeno ai tempi del berlusconismo più rampante (che contava
comunque su qualche rete televisiva di opposizione). Oppure che la si
intuisce da qualche corsivo di giornale, giusto se ci si arma della
pazienza di un cremlinologo, di quelli che dovevano intuire le politiche
sovietiche da apparentemente impercettibili spostamenti rituali. Il
Def, documento di programmazione economico-finanziaria, di questa
primavera anticipava un po’ questa sconfitta. Ma Ypres la ratifica.
Ci aspetta un altro autunno di massacro sociale, di manovre pesanti e di privatizzazioni.
Specie se continua il bacio della morte tra media, opinione pubblica e
Matteo Renzi. Il seguito dell’episodio di guerra finanziaria giocatosi
ad Ypres non sarà infatti indolore. Sarebbe però salutare giocarselo
politicamente con una convinzione: è caduto il mito dello “sbattere i pugni a Bruxelles”
per ottenere qualcosa, qualsiasi straccio di cosa da raccontare alla
propria opinione pubblica. Nel momento in cui viene sconfitta la Gran
Bretagna, cioè l’elemento che più ha sbattuto i pugni sul tavolo e fatta
valere la propria specificità da sempre, è l’idea stessa del “paese che
si fa valere” che è ridicola. Perché, a livello di governo Ue, oggi il
principio del governo a maggioranza fa evaporare quel diritto di veto
che altro non era che la concretizzazione dello sbattere i pugni sul
tavolo. Non a caso quindi Del Rio ha aperto subito sulla
questione degli Eurobond: perché sa che sui margini al patto di
stabilità continentale, sul fiscal compact e sugli investimenti non c’è
spazio. Quindi il Renzi “che sbatterà i pugni sul tavolo in Europa” è
una rappresentazione ottima per le tavolate estive nella natia Rignano,
per i sogni dei Migliore di turno o per quelli degli elettori suicidi
che l’hanno votato.
La verità è che questo è
diventato un paese che ha tutti gli svantaggi della sovranità ceduta,
compreso il trasferimento coloniale delle ricchezze, e nessuno dei
vantaggi di far parte di un dispositivo continentale di governo.
Ed è pure abitato da apprendisti stregoni sia dell’uscita dall’euro che
della permanenza in una eurozona vista con lisergico distacco dai
processi reali. Ma finché, come per le battaglie di Ypres combattute sul
campo, non ci si può immaginare portata e devastazioni dei conflitti
finanziari, tutto scorre. Fino al crinale storico successivo.
Per Senza Soste, nique la police
30 giugno 2014
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