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25/07/2014

Eccesso di rispamio e crollo degli investimenti. La "ripresa" è impossibile



Due articoli nello stesso giorno per dire una cosa – tra le righe, naturalmente – che smonta quasi tutte le argomentazioni a favore delle “riforme strutturali”, quegli stravolgimenti della vita, del salario e delle condizioni di vita che l'Unione Europea prescrive a tutti i paesi, specie quelli con problemi.

La notizia è semplice: in Europa, Germania compresa, dall'inizio della crisi (ovvero dall'estate 2007) gli investimenti sono crollati del 20% (18% al netto dell'inflazione). Non vi sembra una notizia importante? Beh, tenete presente che nessuna economia, di qualsiasi dimensione, può minimamente “crescere” se non si fanno investimenti. Pubblici o privati, non importa.

Se aggiungete il fatto che la stessa Unione Europea impone di tagliare la spesa pubblica – ovvero anche di non effettuare nuovi investimenti pubblici – non si capisce come e perché un'economia possa uscire dalla profonda recessione in cui è entrata.

O meglio: l'unica crescita possibile è quella delle esportazioni, contando sul fatto che la recessione implica disoccupazione e quindi anche caduta dei salari reali. Il che favorisce, in genere, una maggiore “competitività” delle merci verso l'estero. Il problema è che se tutti fanno la stessa politica – ovvero se tutti cercano di essere “trainati dalle esportazioni”, a scapito della domanda interna – allora diventa impossibile che tutti “crescano”. Servirebbe, insomma, anche qualcuno che “compra”, altrimenti come si fa a “vendere”?

Questo è oggi l'Unione Europea a guida tedesca, con la Germania – appunto – oberata da un eccesso di surplus (tradotto: le esportazioni superano in valore le importazioni; addirittura di 280 miliardi l'anno) e quasi tutti gli altri paesi in deficit.

Le colpe? Dei trattati europei "stupidi", da Maastricht in poi (e ancora non è entrato in vigore il Fiscal Compact! detto anche “l'inizio della fine”), moneta unica compresa. Ma anche di una “governance” ottusa o semplicemente orientata dagli interessi dei più forti (il capitale multinazionale, non necessariamente o non solo tedesco). Qualcuno che ci guadagna, insomma, c'è. Anche se pure loro hanno smesso di “crescere”.

Il che genera un problema ulteriore, o meglio svela la causa originaria della crisi: c'è un eccesso di risparmio. O, marxianamente, una “sovrapproduzione di capitale”. Una massa di “liquidi” che non trovano modo di essere investiti e quindi valorizzati; che restano perciò parcheggiati in cassaforte o trovano momentaneo ristoro in qualche “bolla” finanziaria. Prima dell'inevitabile esplosione locale e della fuga verso lidi più sicuri (Bund tedeschi o titoli del Tesoro statunitensi).

Non c'è una via d'uscita indolore da questa situazione, è noto. Checché ne dicano Guido Tabelli e Federico Fubini (editorialisti rispettivamente del Sole24Ore e di Repubblica, i due giornali che riportano la notizia data in apertura). La sovrapproduzione, quando diventa conclamata (“eccesso di risparmio” e “crollo degli investimenti”), esige un “aumento della competitività” che sfocia regolarmente in guerra. Commerciale e delle monete, in un primo tempo. Militare, quasi sempre, dopo un po'.

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Riforme radicali per la svolta in Europa

Guido Tabellini

Gli ultimi dati deludenti sulla crescita nell'area euro e in Italia confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l'inadeguatezza della strategia di politica economica seguita finora in Europa. Ogni Paese deve risollevarsi da solo, con riforme dal lato dell'offerta per riacquistare competitività, e con politiche di bilancio restrittive per riassorbire il debito pubblico. Ma il problema oggi nell'area euro è la carenza di domanda interna, non la competitività, e la stagnazione impedisce il rientro dal debito.

Alla fine del 2013, i consumi privati dell'intera area euro erano del 2% sotto i livelli raggiunti a fine 2007; gli investimenti privati erano sotto del 20%; solo le esportazioni sono salite di quasi il 10% negli ultimi sei anni. Questo problema può essere risolto solo a livello europeo: i governi nazionali non hanno strumenti efficaci per stimolare la domanda aggregata, perché hanno le mani legate dal patto di stabilità e non hanno sovranità monetaria.
Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell'area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l'emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell'arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull'espansione di moneta.
Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell'operazione: l'espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l'acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l'aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso.

E il taglio delle imposte darebbe uno stimolo diretto alla domanda aggregata, in un momento in cui i tassi di interesse sono già a zero e il canale del credito è bloccato dalle sofferenze bancarie. Questo è sostanzialmente quanto hanno fatto o stanno facendo, con modalità diverse, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone per uscire dalla crisi. Eppure un'ipotesi del genere nell'area euro è pura fantascienza, perché si scontra con i vincoli istituzionali di Maastricht e con il veto politico della Germania che teme l'azzardo morale. Di qui a sei o nove mesi probabilmente la Bce sarà comunque costretta ad acquistare i titoli di Stato, per cercare di contrastare la deflazione. Ma l'intervento sarà ancora una volta timido e tardivo, e soprattutto, senza l'aiuto della politica fiscale, poco efficace. In questo disarmante quadro europeo, cosa può fare la politica economica italiana? Innanzitutto, non deve fare errori. Questo vuol dire soprattutto non aggravare la carenza di domanda aggregata attraverso aumenti della pressione fiscale. La cosa è tutt'altro che scontata, perché l'assenza di crescita mette a rischio gli obiettivi di bilancio, sia per l'anno in corso che per il 2015 (dove manca qualche decina di miliardi). Per il 2014 probabilmente non c'è più nulla da fare, ed è meglio avere un disavanzo sopra il 3% e se necessario rientrare nella procedura di disavanzo eccessivo, piuttosto che aumentare il prelievo.

Per il 2015 non ci sono alternative al dare piena attuazione ai tagli di spesa identificati dal rapporto Cottarelli, accelerandone i tempi. È inutile illudersi che esistano imposte innocue; in questa situazione qualunque forma di maggior prelievo avrebbe effetti negativi sulla fiducia e sulla spesa privata. In secondo luogo, è importante fare tutto il possibile per evitare ulteriori aumenti del debito pubblico. Non tanto perché lo impongono i vincoli europei, ma per non perdere la fiducia dei mercati. Le privatizzazioni devono ripartire, andando oltre i modesti obiettivi indicati dal programma di stabilità del governo Letta e confermati da questo governo (1% del PIL ogni anno), e finora disattesi. La situazione sui mercati finanziari non è sfavorevole, e qualunque ritardo o esitazione sarebbe del tutto incomprensibile. E le politiche dell'offerta per ridare competitività all'economia italiana? Anche se il loro effetto sulla crescita è dilazionato nel tempo, sono comunque urgenti e essenziali, per due ragioni. Primo, per rinforzare la fiducia delle imprese e dei mercati finanziari sulle prospettive future dell'economia italiana. Secondo, per vincere le resistenze europee ad adottare politiche macroeconomiche più espansive. In altre parole: la crisi economica non potrà essere superata senza una svolta nelle politiche macroeconomiche di tutta l'area euro. Ma questa svolta non ci sarà senza riforme radicali nei paesi del Sud Europa. Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune.

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Qui, in pdf, l'articolo di Fubini da Repubblica.
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