Sembra lontano anni luce il movimento delle tende, nell’estate 2011,
migliaia di israeliani in piazza contro le politiche sociali del governo
Netanyahu. Mai si erano visti tanti manifestanti per le strade di Tel
Aviv, protestare per il diritto alla casa e un salario equo. Il consenso
verso il premier era al minimo storico. Oggi ancora una volta
il massacro di Gaza ha fatto il miracolo: apprezzamento alle stelle per
le scelte dell’esecutivo, percentuali bulgare che chiedono di proseguire
nell’offensiva via terra.
Una solidarietà radicata che si incontra ovunque, nelle tv, nei
giornali, per la strada. Ora gli israeliani che tornano in piazza – a
parte i gruppi minoritari di sinistra che chiedono la fine della
mattanza – lo fanno per dimostrare vicinanza ai soldati. A Gerusalemme,
giovani raccolgono denaro da inviare ai soldati al “fronte”, mentre ai
funerali degli uccisi partecipano in massa. Lunedì a Haifa decine di
migliaia di persone hanno preso parte alle esequie del sergente Sean
Carmeli, altri 30mila a quelle del soldato Max Steinberg, entrambi
cittadini statunitensi.
A monte la colla che da decenni tiene insieme un popolo melting pot:
gli israeliani arrivano da ogni angolo del mondo, americani, polacchi,
russi, latinoamericani, etiopi, iracheni. Non condividono la lingua, né
le radici culturali. A tenerli insieme, dal 1948, sono la religione
ebraica e il nemico comune. Le fondamenta di una società
militarizzata come quella israeliana, dove la stragrande maggioranza dei
cittadini veste l’uniforme, si induriscono sempre durante un’operazione
militare. Tutti soldati, tutti solidali con l’esercito, il luogo dove ci si forma, si cresce, si diventa israeliani.
L’eco del patriottismo bellico risuona nelle parole della
gran parte dei politici di centro e di destra. Ma risuona ancora più
forte nei media: tv e giornali (fatta eccezione per il liberale
Ha’aretz, molto più letto all’estero che non in patria) ridondano di
editoriali e immagini che esaltano l’attività dell’esercito. Nella
stampa, dal Jerusalem Post a Arutz Sheva fino a Ynet News (vicino al
movimento dei coloni) non c’è spazio per le voci palestinesi, tanto meno
per le richieste di Hamas. La terminologia usata è basilare: la
minaccia terroristica, i danni collaterali rappresentati dalle centinaia
di gazawi uccisi, le giustificazioni semplicistiche per le bombe su
scuole e ospedali.
Non tutti accettano il fiume di propaganda, l’hasbara israeliana: ieri 50 ex soldati hanno rifiutato di infilarsi l’uniforme da riservista, dopo la chiamata dell’esercito:
«Rifiutiamo di rispondere ai nostri doveri di riservisti e sosteniamo
tutti coloro che non accetteranno la chiamata – hanno scritto in un
comunicato – Molti di noi hanno servito nei settori logistici e
burocratici, ma riteniamo che l’intero sistema militare sia coinvolto
nell’oppressione dei palestinesi».
Una goccia nel mare. Poco cambia anche nei social network,
dove gruppi di sostegno all’esercito nascono come funghi. Su Twitter
all’hashtag @GazaUnderAttack hanno reagito con #IsraelUnderAttack, dove
si sprecano appelli allo sterminio del popolo di Gaza. Una
violenza razzista che non resta virtuale: le aggressioni a palestinesi
in Israele e a Gerusalemme sono aumentate in maniera preoccupante.
Ultima in ordine di tempo, il pestaggio di due giovani, Amir Mazin Abu
Eisha e Laith Ubeidat, ieri a Gerusalemme Ovest. Aggrediti e feriti da
una ventina di israeliani nella centralissima Jaffa Road, sono stati
arrestati dalla polizia perché accusati di aver minacciato i passanti
con un coltello. Un caso non affatto isolato: sono ormai decine
le denunce di aggressioni da parte di donne e ragazzi nella zona
israeliana della città.
Il clima di violenza e radicata propaganda tocca vette preoccupanti,
infiammato dalle dichiarazioni di esponenti di governo e dalla stampa
stessa. Tanto da spingere un gruppo di studenti a lavorare giorno e
notte per controbattere alle imputazioni che piovono da ogni parte del
mondo sullo Stato di Israele. Nel college di Herziliya, l’unione degli
studenti ha creato la “stanza della guerra”, un’aula piena di computer
in cui 400 volontari tentano di giustificare l’offensiva di fronte alle
opinioni pubbliche mondiali nei social network. Un popolo intero, o
quasi, stretto intorno al suo esercito.
Fonte
Senza nemmeno troppi distinguo, la società israeliana assume con velocità inquietante i connotati della sua omologa controparte tedesca di 80 anni fa.
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