di Michele Paris
I toni della
campagna di aggressione orchestrata dai governi occidentali nei
confronti della Russia con la giustificazione della crisi ucraina sono
aumentati sensibilmente questa settimana in seguito ad una serie di
eventi appositamente studiati per mettere ancora maggiore pressione su
Mosca. Oltre alle nuove sanzioni economiche decise dall’Unione Europea,
sono giunte infatti un’aperta accusa da parte americana circa la
violazione di un trattato missilistico risalente al periodo della Guerra
Fredda e una sentenza di un tribunale internazionale sfavorevole al
Cremlino nella vicenda dell’ex gigante petrolifero Yukos.
Martedì
sono state quindi finalizzate le più dure sanzioni economiche contro
Mosca finora approvate dai paesi europei. Mentre in precedenza erano
stati colpiti solo singoli individui con misure relativamente modeste,
il pacchetto appena deciso dovrebbe penalizzare interi settori
dell’economia russa, in particolare quelli finanziario, militare ed
energetico.
La decisione è stata presa nel corso di una
videoconferenza tra il presidente americano Obama e i leader dei governi
tedesco, francese, britannico e italiano. Una volta superate le
resistenze della cancelliera Merkel a un’azione più incisiva contro la
Russia, gli altri capi di governo hanno pateticamente acconsentito a una
serie di iniziative che finiranno per pesare in maniera più o meno
grave sulle economie dei loro stessi paesi.
Ben consapevoli dei
danni che le nuove sanzioni potrebbero provocare, i governi UE hanno
fissato alcune eccezioni. Tra di esse spicca l’esclusione dalle sanzioni
delle importazioni di gas dalla Russia, così come dei contratti in
essere per le forniture militari. Quest’ultima eccezione è stata
richiesta in particolare dalla Francia, da mesi al centro delle
pressioni di Washington e Londra per annullare la vendita a Mosca di due
gigantesche navi da guerra Mistral commissionate da tempo.
La
vastità delle nuove sanzioni europee, secondo i media, è tale che gli
stessi Stati Uniti dovranno a loro volta inasprire le misure già
adottate per stare al passo con quelle di Bruxelles.
Il livello
di ipocrisia al limite dell’inverosimile dei governi occidentali
nell’adottare le misure punitive contro la Russia è apparso evidente
dalle parole del primo ministro britannico, David Cameron, il quale,
dopo avere ammesso che le sanzioni avranno conseguenze negative anche
sulle attività finanziarie della City di Londra, ha affermato che
l’accelerazione è dovuta all’abbattimento quasi due settimane fa del
volo Malaysia Airlines MH17 sui cieli dell’Ucraina orientale.
Individui
come Cameron non hanno nemmeno la decenza di ricordare che le
responsabilità di questo atto criminale sono ancora ben lontane
dall’essere assegnate e che, anzi, vari indizi emersi in questi giorni
indicano piuttosto un possibile coinvolgimento delle forze del regime
golpista di Kiev nell’abbattimento del velivolo civile malese che ha
fatto 298 vittime.
Dietro istruzione di Washington, d’altra
parte, i lacchè europei degli americani continuano a ignorare le
informazioni fornite sull’incidente aereo dalla Russia, da dove si
continua anche a chiedere inutilmente di consentire un’indagine
internazionale imparziale sulla sorte del volo MH17.
I governi
occidentali continuano inoltre ad assicurare il pieno appoggio alla
repressione messa in atto dall’Ucraina contro i ribelli filo-russi e la
popolazione civile nelle provincie orientali del paese, costretta a fare
i conti con un’aggressione guidata da forze neo-fasciste che questa
settimana si è intensificata in maniera sensibile.
Gli
Stati Uniti e i loro alleati possono così vantare il sostegno
contemporaneo a due operazioni belliche condotte da governi di estrema
destra - come quelli di Ucraina e Israele - le cui vittime sono in
larghissima misura civili. Il regime di Kiev continua poi a trasgredire una recente risoluzione ONU che chiedeva l’accesso senza impedimenti al
luogo del disastro aereo da parte degli investigatori internazionali,
visto che in quest’area sta conducendo operazioni militari contro i
ribelli e la popolazione.
Le nuove sanzioni, in ogni caso,
dovrebbero servire per far cessare il presunto sostegno militare della
Russia ai ribelli e prevenire un’improbabile invasione dell’Ucraina
orientale sul modello dell’operazione in Crimea, anche se l’aggressione
occidentale proseguirà indifferentemente dalle mosse del presidente
Putin.
A sostegno delle proprie tesi, il Dipartimento di Stato
americano domenica scorsa aveva mostrato alcune immagini satellitari di
bassa qualità che avrebbero dovuto provare come le forze armate russe
avessero colpito bersagli in territorio ucraino. Il Cremlino, da parte
sua, ha respinto le accuse, citando piuttosto i numerosi sconfinamenti
in territorio russo del fuoco ucraino nelle ultime settimane con
conseguenze anche molto gravi, come conferma una vittima registrata
nella città di Donetsk, in Russia.
Il cambio di marcia sulle
sanzioni è comunque di grande rilievo, soprattutto per quanto riguarda
l’atteggiamento della Germania. Con il contributo di molti commentatori
sui principali media, che da mesi vomitano retorica bellicista e puntano
il dito contro le attitudini pacifiste della popolazione, il governo di
Berlino ha valutato l’affermazione dei propri interessi strategici in
un’area tradizionalmente di influenza russa di importanza superiore
anche agli interessi economici immediati del capitale tedesco,
fortemente legato al mercato russo.
Allo stesso modo, il rischio
di compromettere le ingenti forniture di gas russo non ha alla fine
impedito al governo della CDU/CSU e della SPD di allinearsi alle
richieste degli Stati Uniti, per i quali la crisi ucraina - creata a
tavolino dalle proprie ONG e dalle forze politiche filo-occidentali a
Kiev - e ancora più l’abbattimento di un aereo civile rappresentano
l’occasione per ostacolare il processo di integrazione economica
euro-asiatica in cui la Germana svolge appunto un ruolo fondamentale.
La
fissazione di Washington sulla Russia è determinata anche da altri
fattori, dall’asilo concesso a Edward Snowden agli impedimenti posti da
Mosca ad un intervento militare in Siria, ma soprattutto dalla nascita
inevitabile di un blocco economico alternativo fatto di paesi
“emergenti” che minaccia seriamente la declinante leadership americana
nel pianeta.
In questa prospettiva, è significativo che
l’intensificarsi delle pressioni sulla Russia - così come sulla Cina in
Estremo Oriente - siano giunte in parallelo ad alcune importanti
iniziative su scala globale indipendenti dagli Stati Uniti.
Tra
quelle che devono avere occupato i pensieri degli strateghi di
Washington impegnati a progettare la rivolta ucraina contro l’ex
presidente Yanukovich e l’aggressione contro la Russia ci sono, ad
esempio, la firma nel mese di maggio di un colossale accordo per la
fornitura di gas tra Mosca e Pechino e il più recente summit dei
cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) in Brasile.
Durante quest’ultimo evento, è stata sancita la nascita di due
istituzioni finanziarie globali potenzialmente in grado, sia pure nel
lungo periodo, di mettere in discussione il dominio di quelle nate a
Bretton Woods sotto l’egida americana.
La campagna occidentale
contro la Russia è dunque ormai a tutto campo e non sembra più limitata
alla sola questione ucraina. A conferma di ciò, all’inizio di questa
settimana si sono registrati due veri e propri attacchi contro Mosca,
curiosamente avvenuti nel momento di maggiore tensione tra la Russia e
l’Occidente negli ultimi due decenni.
Come già anticipato, nel
primo caso l’amministrazione Obama ha notificato lunedì al Cremlino
quella che viene definita una violazione del Trattato sulle Forze
Nucleari a Medio Raggio (I.N.F.) in seguito ad un test russo, avvenuto
nel 2008, di un missile Cruise lanciato da terra che rientra in questa
categoria.
I sospetti americani risalgono al 2011 e già nella
primavera del 2013 il Dipartimento di Stato USA aveva avanzato l’ipotesi
di dichiarare la Russia in violazione del trattato siglato da Reagan e
Gorbachev nel 1987, dando seguito però alla minaccia solo ora nel pieno
dello scontro sull’Ucraina.
Alla denuncia si è accompagnata la
consueta retorica guerrafondaia dei vertici militari USA. Il comandante
delle forze NATO, generale Philip Breedlove, ha infatti affermato che
“la violazione [del trattato I.N.F.], se non risolta, richiederà una
qualche risposta”. Tra le ipotesi già avanzate per reagire alla
“violazione” russa c’è il dispiegamento di missili Cruise lanciabili da
nave e da aereo, permessi dal trattato a differenza di quelli lanciabili
da terra.
In maniera poco sorprendente, anche in questo caso le
accuse americane grondano ipocrisia, visto che lo scorso anno la Russia
aveva puntato il dito contro gli Stati Uniti in seguito al progetto di
installare in Romania il sistema missilistico Aegis, teoricamente
utilizzabile per il lancio di missili Cruise proibiti dal trattato.
Il
secondo affondo di questa settimana contro la Russia è giunto infine da
una sentenza della Corte Permanente di Arbitrato dell’Aia, in Olanda,
sulla vicenda Yukos. Il verdetto del tribunale internazionale
apparentemente indipendente ha imposto al governo russo di pagare circa
50 miliardi di dollari agli azionisti della defunta compagnia che fu
dell’oligarca decaduto Mikhail Khodorkovsky.
La decisione, tutta
politica, rappresenta uno schiaffo al presidente Putin, il quale nel
2003 sarebbe stato dietro all’arresto di Khodorkovsky - del quale temeva
forse le ambizioni politiche - con le accuse di evasione fiscale e
appropriazione indebita, confiscando la sua azienda petrolifera,
successivamente acquistata dalla compagnia pubblica Rosneft a condizioni
di favore durante il procedimento di bancarotta.
La
dichiarazione da parte della Corte de L’Aia dell’illegalità dello
smantellamento di Yukos è stata subito sfruttata dai media occidentali
per mettere in imbarazzo un Cremlino già sotto assedio per l’Ucraina e
in seguito all’accusa di avere violato il trattato sui missili.
La
sentenza che assegna una qualche vittoria all’ex detenuto Khodorkovsky
oscura tuttavia il fatto che quest’ultimo e molti altri oligarchi in
Russia e nei paesi dell’ex blocco comunista erano entrati in possesso
delle aziende pubbliche dell’URSS svendute - come appunto Yukos - con
sistemi criminali e grazie a legami mafiosi con i vertici dei governi
seguiti alla fine dell’impero sovietico.
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