L’opposizione alle tasse vanta grandi
padri, come i rivoluzionari americani o il campione della disobbedienza
civile Henry David Thoreau. È anche vero che i grandi e i piccoli
imprenditori, i padroni e i padroncini di cooperative e attività commerciali, come pure molti dei protagonisti col forcone della più recente delle rivoluzioni mancate praticano quotidianamente l’opposizione fiscale
spesso trascurando - terrorizzati all’idea di ricadere nel nuovo ceto
medio impoverito - di pagare i contributi ai loro dipendenti. Tutta
questa massa di oppositori fiscali difficilmente farà parte
dell’avanguardia dell’autunno o del semestre dei movimenti.
Difficilmente potranno però farne parte anche coloro che sono tuttora
dei lavoratori dipendenti, oppure dei precari remunerati con un
modernissimo voucher:
per loro, infatti, le ritenute stanno alla fonte e non consentono
opposizione. D’altra parte, la sperimentazione politica caccia nelle
retrovie anche i migranti che, oltre a rischiare di perdere i documenti a
causa dello «sciopero fiscale» dei loro padroncini, per rinnovarli sono
comunque tenuti a essere contribuenti obbedienti e in regola. Cosa
dire quindi alla massa di coloro che non possono sottrarsi alla
tassazione? Che sono subordinati perché hanno un padrone e retrogradi
perché pagano le tasse?
Forse è retrogrado pensare che, almeno
fino alla prossima rivoluzione, la rottura della connessione tra Stato
fiscale e Stato sociale non consente di ignorare la massa sempre più
grande di poveri e di precari che reclamano un reddito e un welfare. Non
è perciò facile capire, e non per motivi banalmente contabili, come si
possa reclamare il reddito universale e, allo stesso tempo, chiamare
allo sciopero fiscale. Forse non è all’altezza dei tempi di
queste spericolate innovazioni credere che tanto il salario quanto il
reddito sono un rapporto di forza, dal quale dipende anche la
redistribuzione della ricchezza. Certo, la difficoltà evidente di
rovesciare questo rapporto rende necessaria la sperimentazione e urgente
realizzare una politica di massa nell’era della precarietà
generalizzata. Ma come mettere assieme l’individualismo proprietario di chi si oppone alle tasse e la necessità di una politica di massa?
Esiste davvero una ricchezza di cui riappropriarsi prima dello scontro
politico che definisce amici e nemici nella sua produzione e
riproduzione? Basta davvero evocare i gloriosi anni Settanta, quando la
pratica audace e auto-imprenditoriale del rifiuto del lavoro ha prodotto
una schiera di lavoratori autonomi? Davvero lo Stato è il principale
titolare del dominio del denaro? L’affermazione che nessuno può avanzare pretese sul mio guadagno, perché è frutto del mio lavoro, torna a identificare ognuno come lavoratore,
con buona pace del rifiuto del lavoro. Pensare di sottrarre allo Stato
la «propria» parte di ricchezza prodotta non spodesta lo Stato dalla sua
posizione, ma evade solo il problema di farne un campo di battaglia,
lasciando intatto il suo profilo di classe. La disobbedienza non equivale mai fino in fondo alla lotta.
La sperimentazione, in ogni
caso, non può risolversi nell’affermazione di una piccola massa,
lasciando alla grande massa la colpa della sua arretrata dipendenza.
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