Il posto di blocco di blocco israeliano di Qalandiya durante scontri (foto Afp) |
Cui
prodest? La vecchia locuzione latina per chiedere a “chi giova?” sembra
non aver perso attualità e nella lettura di quanto accade, tanto in
Italia quanto nel resto del mondo, conserva quella funzione di faro che è
bene seguire per non perdersi nei meandri della cattiva informazione e
della manipolazione della realtà. Una premessa che s'addice
perfettamente a quanto accaduto negli ultimi giorni in Palestina. Mi
riferisco – voglio essere esplicito – al rapimento dei tre giovani
coloni israeliani e al loro assassinio, efferato tanto quanto quello di
decine di giovani palestinesi.
La morte di un essere umano,
tanto più se ragazzo, non può lasciare insensibili. E’ un dramma,
sempre. Ma proprio per questo non possono esserci morti di serie A e
morti di serie Z. Il dolore delle madri dei tre coloni
israeliani non è maggiore di quello delle madri dei giovani che in
queste ore stanno perdendo la vita in fondo al Mare Mediterraneo nel
tentativo di trovare sulle nostre coste quella speranza di futuro che
anche noi contribuiamo a negargli nei loro Paesi. Il dolore delle madri
dei tre coloni non è più intenso di quello di tante madri palestinesi
che in questi anni hanno dovuto piangere la morte dei loro figli,
colpevoli solo di essere nati in una terra da oltre sessanta anni sotto
occupazione. Il dolore è dolore e basta. Va rispettato.
Proprio quello che non avviene dalle
nostre parti, dove il dolore diventa spesso merce da vendere, come tutta
la merce, sugli schermi tv. Non c’è nessun rispetto, al contrario c’è
speculazione e tanta, tanta malafede. Così succede che ipocritamente
vediamo ministre e politici versare lacrime sui morti che arrivano a
Lampedusa, salvo il minuto successivo continuare con le solite politiche
a partire dal mantenimento di quell’infame legge che è la Bossi-Fini.
Oppure assistiamo all’assordante silenzio verso la criminale
occupazione delle terre palestinesi che quotidianamente produce morti e
soprusi, salvo lamentarci di tanto in tanto se quelle donne e quegli
uomini abbandonati dalla giustizia degli umani si rivolgono a quella di
Dio. Poi, come per incanto il muro si apre e ci sono fatti e notizie che
occupano interi telegiornali e gran parte dei talk show rimasti immuni
dalla febbre dei mondiali di calcio. E’ il caso dei tre coloni
israeliani rapiti due settimane fa vicino Hebron. Fiumi di parole
scorrono… Assistiamo ad una sorta di gara a chi è più solidale e vicino a
Israele, a chi è più israeliano.
A leggere i resoconti di molti media, ma
soprattutto a sentire le dichiarazioni di politici e opinion leader,
sembra però che la storia sia iniziata con questo rapimento. Non una
parola sui massacri operati da Israele – da Deir Yassin a Sabra e
Chatila, passando per Jenin e decine di altri villaggi – non una parola
sul muro dell’apartheid, su di una occupazione illegale e criminale,
sulla negazione del diritto internazionale a poter tornare nelle proprie
case, sulle migliaia di prigionieri politici palestinesi, sulla
violenza quotidiana verso un intero popolo, su Gaza assediata, su Hebron
soffocata, sulla Cisgiordania frantumata in mille bantustan, su
Gerusalemme violentata nella sua cultura e nelle sue religioni… Solo
silenzio. La storia inizia in quella mattina del 12 giugno, con il
rapimento dei tre giovani coloni.
Ma torniamo alla locuzione latina: cui prodest? Sicuramente
quanto accaduto in queste settimane giova a chi si era opposto in tutti
i modi alla tormentata riappacificazione fra le due principali
componenti della società palestinese, Hamas e Fatah. Dopo anni di
trattative si era arrivati a definire un percorso per la costituzione di
un governo di unità nazionale ed ora tutto è di nuovo in alto mare.
Principale oppositore di questa unità è stato Israele e il suo governo,
che vede come fumo negli occhi la riunificazione palestinese. L’unità
palestinese fa paura, perché è il primo mattone per riallacciare i nodi
di una pace tanto giusta quanto possibile. Ma cadremmo nello stesso
errore che abbiamo sopra denunciato se non ci mostriamo pronti a
riconoscere che anche dentro il frastagliato mondo della Palestina c’è
chi si oppone a questo dialogo. La storia, anche recente, ci ha
insegnato che spesso punti di comune interesse si possono trovare anche
fra nemici storici e fra opposti estremismi, e che le complicità si
possono sviluppare in vario modo. Per questo la vicenda del rapimento e
dell’uccisione dei tre giovani coloni è complessa e ad oggi ricca di
incognite. Una cosa però è certa, il dramma dei tre ragazzi uccisi, come
quello di migliaia di palestinesi, ha un’origine, che non si può e non
si deve mai eludere o nascondere. Questa origine ha un nome:
occupazione. L’occupazione israeliana-sionista delle terre palestinesi.
Nel mese di gennaio ero a Gaza, insieme
ad altre compagne e compagni, eravamo andati per ricordare che il
diritto al ritorno è un tema ineludibile per la soluzione della
questione palestinese; in quella occasione le donne e gli uomini di Gaza
ci hanno rivolto in modo asfissiante un appello: “fate sentire la
vostra voce per mettere fine alla vergognosa divisione fra Hamas e
Fatah”. Quel popolo fiero e indomabile vede oggi regredire quella sua
richiesta. L’unità si allontana e con essa la possibilità di essere più
forti nel contrastare l’occupazione sionista. E’ lo stesso popolo che in
queste ore sta subendo l’ennesima criminale rappresaglia da parte
dell’esercito di Israele. Il tutto nel più assoluto silenzio di una
comunità internazionale che, salvo rarissime eccezioni, volta le spalle.
La stessa reazione che in queste ore si ha verso la vera e propria
caccia all’arabo che si sta scatenando a Gerusalemme. Prima vittima:
Mohammad Abu Khdeir, 16 anni, del campo profughi di Shuaffat, ritrovato
questa mattina dalla polizia israeliana in un bosco di Gerusalemme, dopo
che la famiglia aveva denunciato il suo rapimento.
Infine c’è una questione tutta italiana: l’agibilità politica e democratica per chi vuole manifestare a fianco della Palestina nella città di Roma. Da diverso tempo, infatti, pestaggi e aggressioni da parte di squadristi legati agli ambienti vicini al sionismo e allo stato di Israele si succedono con impressionante puntualità. Veri e propri atti di violenza fascista che hanno colpito militanti pro palestinesi nelle strade della Capitale, nella più assoluta impunità. Ne ricordo su tutti tre: l’aggressione sulla scalinata del Campidoglio due anni fa, l’aggressione lo scorso 25 aprile davanti la metro del Colosseo e infine quella di ieri verso ragazzi arrivati a piazza Venezia per protestare contro i raid israeliani. Non una parola da parte del Comune di Roma e del suo sindaco per stigmatizzare questi atti. Solo silenzio da parte delle principali forze politiche romane. Non una presa di distanza da parte dei membri della comunità ebraica. Tutto questo è a dir poco vergognoso. Come è vergognoso che si permetta a bande organizzate di gestire in modo proprio la legge nel cuore di Roma. Qualcuno dovrà pur dire qualcosa verso questi atti di prepotenza intollerabile, che rischiano di scatenare pregiudizi e razzismi, sempre in agguato e verso i quali ci deve essere la più assoluta presa di distanza.
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