di Gioacchino Toni
Il volume di Hans Georg Moller, Paul J. D’Ambrosio, Il tuo profilo e te. L’identità dopo l’autenticità, tradotto da Luciano Martinoli (Mimesis 2022), riflette su come l’identità contemporanea basata sul “profilo” presupponga una costante costruzione di sé stessi allo scopo di presentarsi agli altri e di come questa non possa, di fatto, essere valutata in termini di “autenticità”.
Alla costruzione di tale tipo di identità sui social, ricordano gli autori, curiosamente concorre anche la nuova vocazione che ha assunto il turismo contemporaneo che ha indubbiamente abbandonato la romantica propensione all’esplorazione di “località autentiche”. Nel momento in cui le destinazioni di viaggio sono state trasformate in brand, il turismo è divenuto una sorta di partecipazione a una rappresentazione pubblica utile a generare un «plusvalore di identità al di là del valore del profilo fornito dall’industria del turismo» (p. 14).
I due studiosi si soffermano sull’insistenza con cui alcuni critici dei social media in Occidente denunciano l’“assenza di autenticità”, derivata dal costante ricorso alle applicazioni di fotoritocco, nei selfie pubblicati sui social da parte degli utenti cinesi, critica che non tiene conto di come, in realtà, tale pratica non intende condividere alcuna supposta “autenticità”.
I selfie dei turisti in qualche località esotica, o alle prese con qualche curioso piatto locale, sono votati alla profilicità, non all’autenticità. L’atteggiamento critico occidentale che si riversa sugli orientali pare insomma viziato da una sorta di romantica nostalgia dell’autenticità andata perduta di pari passo a una società che, nel farsi sempre più dinamica, ha messo in crisi la propensione alla tradizionale fedeltà al ruolo “di nascita”. Sotto sotto sembra quasi che a infastidire sia la non accettazione di un ruolo che si vorrebbe predefinito.
Nell’attuale contesto si è indotti a giudicare i prodotti in termini di marchi e gli individui in termini di profili.
Osserviamo prima come le cose vengono viste. Imparando a vedere in questo modo, impariamo anche a mostrarci alla stessa maniera. Formiamo l’identità attraverso la cura dei profili. I profili sono immagini di noi stessi presentate per l’osservazione di secondo ordine. Guardandoli, gli altri possono vedere come a noi piace essere visti (p. 24).
In tal modo si finisce sempre più spesso per far ricorso a valutazioni basate sugli algoritmi che indirizzano i giudizi.
Una riflessone proposta da Moller e D’Ambrosio riguarda lo stesso attivismo politico – smartphone alla mano – a loro dire spesso divenuto un palcoscenico per l’autorappresentazione.
Dove è il “vero manifestante” in questa catena di post e auto-presentazioni? Dov’è il manifestante la cui unica preoccupazione è il problema e non sé stesso? Come potrebbe una pura causa, semmai esistesse, essere osservata e condivisa senza trasformarla allo stesso tempo in un’auto-presentazione che mira ad attirare l’attenzione, ottenere mi piace o promuovere in altro modo il proprio profilo? E come potrebbero tali attività di auto-presentazione e auto-profilazione oggi svolgersi senza essere indissolubilmente legati a un’economia politica capitalista? […] Maggiore è il grado di identificazione con una causa, più l’identità stessa diventa la propria vera causa. Oggi, in una società in cui la profilicità è un metodo ampiamente applicato di formazione dell’identità, sia gli individui che le collettività utilizzano i problemi per modellare e commercializzare i propri profili, la sinistra così come la destra, gli attivisti verdi di nome Greta come i politici antipolitica di nome Donald. Una causa di alto profilo aiuta a migliorare i profili personali e collettivi (pp. 31 e 33).
L’intero volume ruota attorno a come, nell’era della profilicità, in cui tutti, propensi a mettersi in vetrina, “fingono veramente”, occorra una volta per tutte prendere atto di essere diventati “autentici impostori”.
Nel Postscript aggiunto ad opera ormai conclusa, gli autori si soffermano sulla situazione che si è venuta a creare a livello internazionale con il dilagare della pandemia Covid-19, spesso paragonata alla guerra. Nonostante le esperienze dirette – non solo in termini di salute ma anche di perdita di lavoro, restrizioni ecc. – proprio come in guerra gli individui si sono trovati ad affidarsi molto «all’osservazione di secondo ordine per dare un senso a ciò che sta accadendo e per decidere cosa fare» (p. 221).
In una situazione di blocco generalizzato, in cui i media dispensano il loro racconto circa la sofferenza, i regolamenti da osservare e le prospettive future, ci si è trovati ad affrontare la crisi principalmente davanti a uno schermo. «Noi vediamo quello che succede come viene visto. E in questo mondo di vita virtuale, anche noi appariamo sugli schermi ancora più di prima. Dobbiamo salire sul nostro piccolo palco virtuale e presentare la nostra immagine, i nostri profili, con la pandemia in agguato sullo sfondo» (p. 221).
A differenza delle guerre che inducono gli individui a forme di identificazione utili a dare «un significato alla vita sviluppando un forte senso di appartenenza a “noi” piuttosto che a “loro”» (p. 222), la pandemia, invece, non è in grado di stabilire una netta distinzione amico/nemico; non fornisce un’alterità a cui opporsi in termini identitari. «Eppure la pandemia, soprattutto se affrontata virtualmente e nelle retrovie, offre la possibilità di accrescere la propria identità» (p. 222), permette di auto-profilarsi.
Oggi, le persone si affidano all’osservazione di secondo ordine per dar senso a sé stessi. In queste circostanze, anche l’aver a cuore non può che diventare, non esclusivamente ma in larga misura, una cura dell’osservazione di secondo ordine: l’aver a cuore sullo schermo. In condizioni di profilicità, abbiamo profondamente a cuore di essere visti come profondamente premurosi, specialmente durante una pandemia (p. 225).
Il volume di Moller e D’Ambrosio invita a guardare alle modalità e alle logiche contemporanee con cui gli individui concorrono a costruire le loro identità sui social da una prospettiva che sappia andare oltre l’accusa di inautenticità.
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