Dal Testo Unico del 2011 alle recenti riforme del governo Renzi, la
regolamentazione del contratto d’apprendistato si rivela un buon punto
da cui guardare alla nuova configurazione del legame tra formazione e
lavoro in un regime di precarietà generalizzata.
L’apprendistato ha sempre offerto la possibilità di assumere giovani a
un salario più basso di quello contrattuale, conveniente nonostante gli
obblighi formativi anche per gli incentivi fiscali e contributivi che lo
hanno caratterizzato fin dall’inizio. Nel 1997 il pacchetto Treu, oltre
a introdurre tirocini e contratti a termine, ha modificato anche la
regolamentazione dell’apprendistato. In particolare, ha introdotto
l’obbligo di una formazione pubblica – offerta dalle Regioni – ed
esterna all’impresa, pari a 120 ore annuali. La formazione pubblica
dovrebbe essere basilare e trasversale, quella in azienda direttamente
qualificante. L’obbligo della formazione pubblica è stato uno dei motivi
del mancato decollo dell’apprendistato, che poteva del resto essere
facilmente sostituito da forme di lavoro gratuito come gli stage o dai
contratti di inserimento. A ben vedere, però, la separazione di una
quantità minima di formazione pubblica trasversale e di una formazione
aziendale inaugura un modello di armonizzazione tra pubblico e
privato in nome dell’efficienza e dell’adeguamento alle esigenze del
mercato del lavoro. Se la prima proposta di legge del governo
Renzi prevedeva l’eliminazione della formazione pubblica, questa viene
reintrodotta dalla Commissione Lavoro che, però, sostituisce all’obbligo
di stendere, all’avvio dell’apprendistato, un piano formativo
individuale dettagliato, una sua stesura «sintetica», nell’ottica della
semplificazione e della flessibilità. Com’è possibile, infatti, a fronte
di un sistema produttivo che cambia così freneticamente, prevedere un
piano formativo dettagliato per un intero triennio? Il piano formativo deve essere modificabile a seconda di queste trasformazioni e affidato all’arbitrio del datore di lavoro,
che interpretando a suo piacimento la sinteticità può aggirare
qualsiasi ispezione. Ci si chiederà quale professionalità dovrebbe
essere prodotta se non si riesce a stabilire preliminarmente in forma
scritta quale sia la formazione necessaria, se, in altri termini, le
modalità della formazione sono immediatamente piegate alle esigenze
congiunturali. Si tratterà di un insieme di competenze adatte alla
contingenza dei bisogni aziendali, presentato come formazione necessaria
ma poi da squalificare alla fine del periodo di apprendistato o in
corso d’opera perché inutile per l’azienda e per le esigenze produttive
del momento. Non a caso, nella riforma Renzi, l’obbligo di assunzione a
tempo indeterminato degli apprendisti nei 36 mesi precedenti nelle
aziende con più di 50 dipendenti per poter assumere un nuovo apprendista
viene ridotta dal 50%, previsto dalla riforma Fornero, al 20%. Se,
infatti, difficilmente di anno in anno si può decidere di quale
formazione investire i nuovi apprendisti, tanto più sarà complesso
prevedere di quanti e quali lavoratori si ha bisogno. Tanto più,
insomma, data l’imperscrutabilità delle esigenze produttive la
forma dell’apprendistato si presta a diventare una componente
strutturale dell’organizzazione aziendale. Da parte di chi
lavora ciò significa che, sia per quanto riguarda la possibilità di
essere effettivamente assunti, sia per quanto riguarda la spendibilità
delle competenze acquisite non c’è alcuna certezza. Benché siano
presentate come misure di agevolazione volte all’abbattimento della
disoccupazione e per preparare i giovani all’ingresso nel mercato del
lavoro, l’unica condizione d’accesso a questo mercato è di
adattarsi alla sua contingenza e la disponibilità a formarsi e
riformarsi come vuole il mercato. Peccato che ciò che il
mercato vuole è sempre più regolato sull’oggi e ciò si traduce in una
costante frustrazione dei progetti individuali anche di breve periodo.
Si vede così che i profondi mutamenti culturali della società
globale del rischio sono anche più profondamente inscritti in un regime
del salario la cui prima regola è quella di produrre e riprodurre
incertezza.
Questa incertezza si rivela tanto più
strutturale quanto più vengono estesi gli ambiti in cui è applicabile il
contratto di apprendistato. Prima del 2011, tre erano le forme di
apprendistato: l’apprendistato inserito in un percorso di istruzione
secondaria professionale (dal giugno scorso, grazie a un’avanguardistica
sperimentazione del Miur, già esteso a tutte le scuole superiori, con
l’inserimento di un’esperienza di apprendistato in azienda nel quarto e
quinto anno di scuola valida in forma di crediti all’esame di maturità),
il contratto professionalizzante o di mestiere e l’apprendistato di
alta-formazione. Il Testo Unico estende l’apprendistato ai
dipendenti pubblici, ai lavoratori in mobilità e all’ambito della
somministrazione del lavoro. Oltre alla tendenziale
armonizzazione tra pubblico e privato nel segno della precarizzazione
del lavoro pubblico che sta diventando compiuta con la riforma della
pubblica amministrazione, da notare è il nesso tra formazione e
mobilità. Anche i lavoratori in mobilità, infatti, potranno
essere assunti come apprendisti ai fini della loro qualificazione o
riqualificazione professionale. Questo specifico «apprendistato
per mobilità» prevede, tra le altre cose, la possibilità di un
sottoinquadramento, fino a due livelli, ovvero l’applicazione del
salario d’ingresso. Le agevolazioni contributive si hanno solo per 18
mesi e non per 36, ma in caso il lavoratore abbia diritto a percepire
un’indennità di mobilità, il datore di lavoro ha diritto, per non più di
un anno, a un incentivo economico pari al 50% dell’indennità di
mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore. Il
tentativo di incentivare l’apprendistato come forma normalizzata di
passaggio dal non lavoro al lavoro lascia intravedere la direzione della
semplificazione: un’unica forma contrattuale che regoli la
formazione alla disponibilità alle esigenze del mercato del lavoro. Solo
unilateralmente formazione e lavoro starebbero in una pacifica armonia.
Per chi viene formato, lo scollamento tra formazione e lavoro è
evidente nella misura in cui un apprendistato equivale a un periodo di
lavoro con un salario basso che non garantisce alcuno stabile
inserimento in un mercato del lavoro da cui si viene espulsi in
continuazione. Nell’impossibilità di appropriarsi dei prodotti
della propria formazione, essa si rivela funzionale alle esigenze
congiunturali ed equivalente all’inserimento perenne nel mercato di una
merce povera chiamata lavoro.
L’impoverimento del lavoro è chiaramente
uno degli obiettivi delle politiche della formazione, così come si vede
attraverso la lente dell’apprendistato, quale alternativa pratica alla
cassa integrazione e alle forme classiche di sostegno alla
disoccupazione. La chiara linea che si sta affermando è: mai più senza
lavoro. Ciò significa che in caso di congiuntura sfavorevole o più
semplicemente di ristrutturazione aziendale, i lavoratori colpiti devono
accettare il lavoro che viene loro «destinato». La formazione in questo
caso non serve ad aggiungere competenze, non serve a sviluppare
capacità conoscitive, ma punta concretamente a svalutare quelle
presenti. Il paradosso di una formazione che toglie invece che
aggiungere fa del lavoratore un oggetto da plasmare e riplasmare, in
modo che non possa avanzare alcuna pretesa sull’uso della sua forza
lavoro.
Nessun commento:
Posta un commento