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22/07/2014

Il regime del salario #5. Apprendistato, ovvero della formazione negativa

→ vedi anche Il regime del salario #1#2#3, #4

Dal Testo Unico del 2011 alle recenti riforme del governo Renzi, la regolamentazione del contratto d’apprendistato si rivela un buon punto da cui guardare alla nuova configurazione del legame tra formazione e lavoro in un regime di precarietà generalizzata. 

L’apprendistato ha sempre offerto la possibilità di assumere giovani a un salario più basso di quello contrattuale, conveniente nonostante gli obblighi formativi anche per gli incentivi fiscali e contributivi che lo hanno caratterizzato fin dall’inizio. Nel 1997 il pacchetto Treu, oltre a introdurre tirocini e contratti a termine, ha modificato anche la regolamentazione dell’apprendistato. In particolare, ha introdotto l’obbligo di una formazione pubblica – offerta dalle Regioni – ed esterna all’impresa, pari a 120 ore annuali. La formazione pubblica dovrebbe essere basilare e trasversale, quella in azienda direttamente qualificante. L’obbligo della formazione pubblica è stato uno dei motivi del mancato decollo dell’apprendistato, che poteva del resto essere facilmente sostituito da forme di lavoro gratuito come gli stage o dai contratti di inserimento. A ben vedere, però, la separazione di una quantità minima di formazione pubblica trasversale e di una formazione aziendale inaugura un modello di armonizzazione tra pubblico e privato in nome dell’efficienza e dell’adeguamento alle esigenze del mercato del lavoro. Se la prima proposta di legge del governo Renzi prevedeva l’eliminazione della formazione pubblica, questa viene reintrodotta dalla Commissione Lavoro che, però, sostituisce all’obbligo di stendere, all’avvio dell’apprendistato, un piano formativo individuale dettagliato, una sua stesura «sintetica», nell’ottica della semplificazione e della flessibilità. Com’è possibile, infatti, a fronte di un sistema produttivo che cambia così freneticamente, prevedere un piano formativo dettagliato per un intero triennio? Il piano formativo deve essere modificabile a seconda di queste trasformazioni e affidato all’arbitrio del datore di lavoro, che interpretando a suo piacimento la sinteticità può aggirare qualsiasi ispezione. Ci si chiederà quale professionalità dovrebbe essere prodotta se non si riesce a stabilire preliminarmente in forma scritta quale sia la formazione necessaria, se, in altri termini, le modalità della formazione sono immediatamente piegate alle esigenze congiunturali. Si tratterà di un insieme di competenze adatte alla contingenza dei bisogni aziendali, presentato come formazione necessaria ma poi da squalificare alla fine del periodo di apprendistato o in corso d’opera perché inutile per l’azienda e per le esigenze produttive del momento. Non a caso, nella riforma Renzi, l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato degli apprendisti nei 36 mesi precedenti nelle aziende con più di 50 dipendenti per poter assumere un nuovo apprendista viene ridotta dal 50%, previsto dalla riforma Fornero, al 20%. Se, infatti, difficilmente di anno in anno si può decidere di quale formazione investire i nuovi apprendisti, tanto più sarà complesso prevedere di quanti e quali lavoratori si ha bisogno. Tanto più, insomma, data l’imperscrutabilità delle esigenze produttive la forma dell’apprendistato si presta a diventare una componente strutturale dell’organizzazione aziendale. Da parte di chi lavora ciò significa che, sia per quanto riguarda la possibilità di essere effettivamente assunti, sia per quanto riguarda la spendibilità delle competenze acquisite non c’è alcuna certezza. Benché siano presentate come misure di agevolazione volte all’abbattimento della disoccupazione e per preparare i giovani all’ingresso nel mercato del lavoro, l’unica condizione d’accesso a questo mercato è di adattarsi alla sua contingenza e la disponibilità a formarsi e riformarsi come vuole il mercato. Peccato che ciò che il mercato vuole è sempre più regolato sull’oggi e ciò si traduce in una costante frustrazione dei progetti individuali anche di breve periodo. Si vede così che i profondi mutamenti culturali della società globale del rischio sono anche più profondamente inscritti in un regime del salario la cui prima regola è quella di produrre e riprodurre incertezza.

Questa incertezza si rivela tanto più strutturale quanto più vengono estesi gli ambiti in cui è applicabile il contratto di apprendistato. Prima del 2011, tre erano le forme di apprendistato: l’apprendistato inserito in un percorso di istruzione secondaria professionale (dal giugno scorso, grazie a un’avanguardistica sperimentazione del Miur, già esteso a tutte le scuole superiori, con l’inserimento di un’esperienza di apprendistato in azienda nel quarto e quinto anno di scuola valida in forma di crediti all’esame di maturità), il contratto professionalizzante o di mestiere e l’apprendistato di alta-formazione. Il Testo Unico estende l’apprendistato ai dipendenti pubblici, ai lavoratori in mobilità e all’ambito della somministrazione del lavoro. Oltre alla tendenziale armonizzazione tra pubblico e privato nel segno della precarizzazione del lavoro pubblico che sta diventando compiuta con la riforma della pubblica amministrazione, da notare è il nesso tra formazione e mobilità. Anche i lavoratori in mobilità, infatti, potranno essere assunti come apprendisti ai fini della loro qualificazione o riqualificazione professionale. Questo specifico «apprendistato per mobilità» prevede, tra le altre cose, la possibilità di un sottoinquadramento, fino a due livelli, ovvero l’applicazione del salario d’ingresso. Le agevolazioni contributive si hanno solo per 18 mesi e non per 36, ma in caso il lavoratore abbia diritto a percepire un’indennità di mobilità, il datore di lavoro ha diritto, per non più di un anno, a un incentivo economico pari al 50% dell’indennità di mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore. Il tentativo di incentivare l’apprendistato come forma normalizzata di passaggio dal non lavoro al lavoro lascia intravedere la direzione della semplificazione: un’unica forma contrattuale che regoli la formazione alla disponibilità alle esigenze del mercato del lavoro. Solo unilateralmente formazione e lavoro starebbero in una pacifica armonia. Per chi viene formato, lo scollamento tra formazione e lavoro è evidente nella misura in cui un apprendistato equivale a un periodo di lavoro con un salario basso che non garantisce alcuno stabile inserimento in un mercato del lavoro da cui si viene espulsi in continuazione. Nell’impossibilità di appropriarsi dei prodotti della propria formazione, essa si rivela funzionale alle esigenze congiunturali ed equivalente all’inserimento perenne nel mercato di una merce povera chiamata lavoro.

L’impoverimento del lavoro è chiaramente uno degli obiettivi delle politiche della formazione, così come si vede attraverso la lente dell’apprendistato, quale alternativa pratica alla cassa integrazione e alle forme classiche di sostegno alla disoccupazione. La chiara linea che si sta affermando è: mai più senza lavoro. Ciò significa che in caso di congiuntura sfavorevole o più semplicemente di ristrutturazione aziendale, i lavoratori colpiti devono accettare il lavoro che viene loro «destinato». La formazione in questo caso non serve ad aggiungere competenze, non serve a sviluppare capacità conoscitive, ma punta concretamente a svalutare quelle presenti. Il paradosso di una formazione che toglie invece che aggiungere fa del lavoratore un oggetto da plasmare e riplasmare, in modo che non possa avanzare alcuna pretesa sull’uso della sua forza lavoro.

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