di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Il giugno del caos iracheno
si è chiuso con un bilancio drammatico: 2.417 morti nelle violenze
esplose con l’avanzata islamista nel paese. Il mese più sanguinoso
dell’anno, dicono le Nazioni Unite, dopo l’occupazione di quattro
province irachene da parte dell’Isil in poco più di due settimane. La
maggior parte delle vittime sono civili, 1.531; 866 i poliziotti e i
soldati uccisi.
Un massacro che lo Stato iracheno non è in grado fermare. Ieri il
nuovo parlamento si è riunito, prima sessione dopo le elezioni del 30
aprile. Un nulla di fatto: nonostante le pressioni interne e
internazionali per la creazione di un governo di unità nazionale, il
presidente non è stato eletto. Lunedì le principali fazioni
sciite di opposizione al premier Maliki avevano annunciato l’intenzione
di formare un blocco unico e relegare così i 92 seggi di Stato di Legge
(coalizione del primo ministro) in minoranza. Alcuni partiti minori
avevano minacciato di boicottare la votazione. E ieri i timori di un
debacle si sono concretizzati: parlamentari sunniti e curdi
hanno fatto marcia indietro, facendo venir meno il numero legale per
poter tenere la sessione che si è chiusa quasi subito. Se ne riparla tra
una settimana. A monte, la richiesta di conoscere il nome
sciita a candidato presidente del parlamento (colui che sarà poi
chiamato a indicare il nuovo premier) prima di rivelare il proprio:
tradizione vuole che in Iraq la carica di primo ministro vada ad uno
sciita, quello di presidente ad un curdo e quello di presidente del
parlamento ad un sunnita.
La sospensione della prima seduta, attesissima dalla comunità
internazionale che sperava in un atto di riconciliazione interno, è
l’ennesimo segno delle divisioni interne e dell’estrema fragilità della
classe politica irachena, ancora arroccata su posizioni e interessi di
parte mentre il paese va a picco. Oltre al danno, anche la beffa, giunta per mano del presidente della regione autonoma del Kurdistan, Barzani.
Il referendum per l’indipendenza curda si terrà nei prossimi mesi, ha
detto alla stampa: «Tutto quello che sta succedendo in questi giorni
mostra che è diritto del Kurdistan avere l’indipendenza. D’ora in poi
non nasconderemo più il nostro obiettivo. L’Iraq è ormai diviso.
Dovremmo continuare a vivere in questa tragica situazione? Non sono io a
decidere, è il popolo. Terremo un referendum, è questione di mesi».
La tensione tra il premier Maliki e i rappresentanti curdi
era palpabile, ieri in parlamento, con i secondi che accusavano Baghdad
di aver congelato gli stipendi governativi e il primo che minacciava di
distruggerli: «Chi tira giù la bandiera dell’Iraq, sarà punito». Che si trovi in Kurdistan, nella Kirkuk controllata dai peshmerga
o nelle regioni occupate dall’Isil, dove a sventolare sono sempre più
spesso le bandiere nere jihadiste. Ma a preoccupare la Casa Bianca è il
segnale mandato da sunniti e curdi alla frammentata compagine sciita: a
quanto pare la proposta di un governo di unità nazionale da nominare nel
minor tempo possibile è stata rigettata.
Intanto a due giorni dall’auto-proclamazione del califfato
siriano-iracheno da parte dell’Isil, con il leader al-Baghdadi
battezzatosi califfo Ibrahim e legittimo successore di Maometto, gli
Stati Uniti hanno deciso di inviare altri 300 soldati, insieme ad
elicotteri Apache e droni Predator. Il numero totale di truppe Usa
presenti oggi in territorio iracheno si aggira intorno alle 750 unità
ma, ci tiene a precisare il Pentagono, «si tratta di personale chiamato
a rafforzare la sicurezza dell’ambasciata statunitense e dell’aeroporto
internazionale di Baghdad». Ovvero, nessuna operazione militare è
prevista. Al massimo, coordinamento militare con le forze irachene che
hanno costituito insieme a 300 consiglieri militari Usa dei centri di
cooperazione per gestire la risposta all’offensiva islamista.
Fonte
L'impasse che sta caratterizzando la questione irachena assume tinte sempre più tragicomiche. Sembra il copione geopolitico dell'affondamento del Titanic.
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