di Mario Lombardo
Il ritrovamento
lunedì vicino a Hebron dei cadaveri dei tre giovani israeliani, rapiti
il 12 giugno scorso nei pressi di un insediamento illegale in
Cisgiordania, ha scatenato la prevedibile dura reazione del governo di
estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu. Il primo ministro ha
accusato il movimento islamista Hamas del rapimento e dell’omicidio dei
tre ragazzi, intensificando una campagna di aggressione già in corso da
tre settimane nei territori palestinesi per individuare i presunti
colpevoli.
Una riunione d’emergenza del gabinetto israeliano si è
conclusa con un primo provvedimento che ha autorizzato una quarantina
di incursioni aeree nella notte tra lunedì e martedì nella Striscia di Gaza,
ufficialmente per colpire obiettivi legati ad Hamas, Jihad Islamica e
altri gruppi militanti. L’operazione sarebbe avvenuta anche in risposta
al lancio di 18 missili verso Israele provenienti da Gaza a partire
dalla serata di domenica.
I servizi di sicurezza israeliani
avevano sostenuto la settimana scorsa di avere identificato nel 29enne
Marwan Qawasmeh e nel 32enne Amar Abu Aisha i presunti responsabili del
rapimento dei tre adolescenti. Le operazioni condotte a partire dal 12
giugno dalle forze armate di Israele hanno già causato almeno sei
decessi, mentre gli arrestati si contano a centinaia. I morti e i
detenuti palestinesi, com’è ovvio, nulla hanno a che vedere con il
rapimento ma, tutt’al più, sono il risultato della resistenza contro
l’ennesimo assalto israeliano in Cisgiordania condotto per terrorizzare
la popolazione palestinese.
Le forze israeliane, inoltre, hanno
raso al suolo le abitazioni dei due sospettati. Durante la distruzione
di uno dei due edifici, la moglie incinta e un nipote di 2 mesi di
Qawasmeh sono rimasti feriti. La madre di Abu Aisha, invece, ha
ricordato come gli israeliani avessero già demolito la sua casa nel 2005
dopo l’uccisione di un altro suo figlio mentre cercava di lanciare
dell’esplosivo contro un soldato delle forze di occupazione.
La
tragica vicenda dei tre giovani è stata in ogni caso sfruttata dal
governo Netanyahu per alzare i toni nei confronti dei vertici del
movimento palestinese, con un preciso obiettivo politico, vale a dire la
rottura del recente accordo di riconciliazione tra l’Autorità
Palestinese e Hamas. L’intesa era stata raggiunta ad aprile e poi
siglata a inizio giugno con l’intenzione di spianare la strada a un
governo di “unità nazionale” e di organizzare le elezioni nei territori
palestinesi per il 2015.
Da subito, il riavvicinamento tra
l’entità guidata da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Hamas aveva suscitato le
accese critiche di Israele, la cui classe dirigente teme fortemente la
formazione di un fronte unitario - o meno frammentato - sul versante
palestinese.
Nonostante Hamas abbia respinto ogni responsabilità
nel rapimento dei tre giovani israeliani, in molti all’interno del
governo di Tel Aviv hanno lanciato minacciosi avvertimenti
all’organizzazione islamista, con l’obiettivo di creare una nuova
divisione tra quest’ultima e l’Autorità Palestinese.
Il
portavoce di Netanyahu, Mark Regev, ha confermato il proposito del
governo, sostenendo che Abbas è in parte responsabile dell’accaduto,
poiché i “terroristi” provenivano da un’area sotto il suo controllo.
L’invito rivolto all’anziano leader palestinese è perciò quello di
revocare il patto sottoscritto con Hamas.
Prima e durante la
riunione di gabinetto di lunedì, i falchi nel governo Netanyahu hanno
poi chiesto un’azione incisiva contro Hamas. Il ministro dell’Economia e
leader del partito di estrema destra “La Casa Ebraica”, Naftali
Bennett, ha affermato che “questo è il momento dell’azione e non delle
parole”. A Bennett ha fatto eco il ministro dei Trasporti e membro del
Likud, Yisrael Katz, il quale ha sollecitato il primo ministro ad agire
con “tutta la nostra forza contro Hamas a Gaza e in Cisgiordania”.
Ancora
più esplicito è stato il vice-ministro della Difesa, Danny Danon, poco
dopo il ritrovamento dei cadaveri, emanando un comunicato per annunciare
che il governo “non si fermerà fino a quando Hamas sarà completamente
sconfitta”.
Altri ministri hanno invece chiesto una risposta
relativamente misurata, come quello della Difesa, Moshe Ya’alon, delle
Finanze, Yair Lapid, e della Giustizia, Tzipi Livni. Lo stesso Ya’alon,
tuttavia, ha proposto di inaugurare una nuova ondata di insediamenti
illegali in Cisgiordania, di cui uno da intitolare alla memoria dei tre
ragazzi assassinati.
Netanyahu, da parte sua, ha ammesso la
necessità di una risposta “forte” ma senza spiegare in cosa essa
dovrebbe consistere. Il premier, assieme al presidente uscente Shimon
Peres e ad altri membri del suo governo, ha partecipato martedì ai
funerali, mentre ulteriori iniziative contro Hamas potrebbero essere
decise dopo una nuova riunione di emergenza del gabinetto.
Se
appare del tutto evidente che il triplice assassinio dei giovani
israeliani è un crimine odioso, la consueta risposta spropositata di
Israele non ha nulla a che vedere con la giustizia ma rappresenta
piuttosto l’ennesimo atto di punizione collettiva nei confronti di un
popolo già sottoposto a decenni di abusi.
Inoltre, l’ampio spazio
concesso alla vicenda dai media occidentali conferma tristemente come a
fare notizia per la cosiddetta “comunità internazionale” continuino a
essere quasi unicamente le violenze subita da Israele, mentre quelle
esercitate dalle autorità di quest’ultimo paese sui palestinesi, anche
se talvolta condannate in maniera formale, sono di fatto ampiamente
accettate.
Uccisioni, arresti arbitrari, torture, segregazione,
confische, espulsioni dalle proprie terre e molti altri crimini vengono commessi quotidianamente dalle forze di sicurezza di Israele contro le
popolazioni palestinesi, oltretutto con l’appoggio più o meno tacito
degli Stati Uniti e dei loro alleati in Occidente.
Lo
stesso presidente Obama ha condannato ufficialmente l’assassinio dei
tre giovani israeliani, manifestando tutta la sua comprensione per i
familiari di questi ultimi. Un sentimento, quello dell’inquilino della
Casa Bianca, che raramente viene espresso per le vittime delle violenze
di cui si rende responsabile lo stato di Israele.
Né Obama né il
resto della “comunità internazionale”, d’altra parte, orchestrano o
appoggiano campagne di condanna per i pur numerosissimi giovani
assassinati da Israele, spesso senza che le vittime rappresentino una
reale minaccia o perché si battono contro l’occupazione illegale delle
loro terre. Solo qualche settimana fa, ad esempio, un video di
sorveglianza aveva mostrato l’uccisione di un 16enne e di un 17enne
palestinesi per mano delle forze di sicurezza israeliane. I due ragazzi
erano stati colpiti al petto a un’ora di distanza l’uno dall’altro
mentre camminavano disarmati nei pressi di un carcere in Cisgiordania.
A
fotografare la disparità delle forze in campo nel conflitto
israelo-palestinese, così come il trattamento dei membri più giovani
delle popolazioni sottoposte a occupazione, era stato infine un rapporto
reso noto dal ministero dell’Informazione dell’Autorità Palestinese
proprio pochi giorni prima del rapimento dei tre “teenager” provenienti
dai territori occupati.
Secondo i dati resi noti, le forze di
occupazione israeliane hanno ucciso più di 1.500 minori palestinesi tra
il mese di Settembre del 2000 - data dell’inizio della seconda Intifada -
e l’Aprile del 2013, ovvero uno ogni tre giorni. A ciò vanno aggiunti
più di 6.000 feriti e 9.000 arrestati sotto i 18 anni, di cui 250
tuttora nelle carceri dello stato di Israele. Nel silenzio complice
dell’Occidente.
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