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19/07/2014

La Banca Brics, alternativa a dollaro e Fmi

Il mondo cambia rapidamente, ma non nei termini che ci va raccontando la stampa mainstream... Non mi riferisco soltanto alle vicende di Gaza o dell'Ucraina – dove pure la sfrontatezza del giornalismo embedded raggiunge vertici poco invidiabili – quanto a quelle “volgarmente” economiche.

Notiziola che in altri tempi sarebbe stata dissezionata dai principali analisti dei più importanti quotidiani specializzati: i paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) si sono riuniti a Fortaleza, martedì scorso, e hanno raggiunto l'accordo definitivo per la creazione di una banca di sviluppo mondiale da loro controllata. Strano che delle decine di migliaia di giornalisti ancora presenti in Brasile in quella data nessuno o quasi se ne sia accorto; il pallone negli occhi può far molto male...

La banca disporrà di un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari e un fondo di emergenza di 100 miliardi; la sede centrale sarà a Shangai. Complessa, come si conviene, anche la struttura di gestione, con la prima presidenza di turno affidata per cinque anni ad un indiano, mentre la presidenza del consiglio di amministrazione va al Brasile. L'istituto dovrebbe essere operativo già dal 2016.

A firmare il trattato istitutivo c'erano il presidente russo Vladimir Putin, quello cinese Xi Jinping, il sudafricano Jacob Zuma e il primo ministro indiano Narendra Modi. Il massimo livello possibile per ogni paese, insomma, tutti ospiti di Dilma Roussef.

Perché è tanto importante la creazione di questa banca? Non siamo già fin troppo pieni di banche globali che dicono ai singoli paesi cosa fare?

Partiamo dai soci fondatori. I Brics rappresentano il 40% della popolazione mondiale, il 21% dell’economia globale e nell’ultimo decennio hanno contribuito al 50% della crescita economica planetaria. Quanto basta a far dire che qui c'è la “ricchezza reale” prodotta nel pianeta, non solo la finanza speculativa.

Ma è l'obiettivo della banca a sparigliare le carte globali: disegnare una “nuova Bretton Woods”, ovvero un assetto finanziario e monetario capace di regolare i rapporti economici interni a questi paesi (e agli altri che eventualmente aderiranno), senza passare per il dollaro statunitense. E quindi anche senza passare sotto la spada di Damocle del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

La decisione arriva dopo quasi due decenni di inutili pressioni esercitate sulle ultime due istituzioni citate affinché ai paesi ormai “emersi” fosse riconosciuto il peso che effettivamente avevano raggiunto, influenzando quindi molto di più le decisioni, elaborate ancora e sempre a favore degli interessi statunitensi o europei.

Qual'è il problema? Che in questo modo vengono poste le basi di una nuova e diversa “governance” globale, esterna e tendenzialmente sostitutiva di quella fondata sul dollaro e quindi sulla “centralità” statunitense.

Non è ignoto a nessuno che il dollaro costituisce da 70 anni la vera piattaforma girevole dell'economia capitalistica, il tratto comune a tutte le transazioni. È contemporaneamente moneta nazionale, moneta di conto globale, mezzo di tesaurizzazione e moneta di riserva. Ma la sua quantità viene decisa “sovranamente” dalla Federal Reserve, ossia dal governo degli Stati Uniti (la storia della banca centrale “indipendente”, a Washington, viene presa per una barzelletta da deficienti). In altri termini, le oscillazioni del tasso di cambio del dollaro – frequenti, terrorizzanti, violente – dipendono dai bisogni e dagli interessi, anche contingenti, di un solo paese. Il contrario della “stabilità”, insomma, dell'”equilibrio”, dell'”interesse globale”.

Nessuno, non per caso, era fin qui riuscito a proporre una piattaforma alternativa (moneta, banca, istituzioni di governance) a quella dominante, “anglosassone”.

Ora c'è. Almeno potenzialmente. La leadership statunitense è certamente declinante, ma non segnata dalla volontà di passare il testimone. Il che è un problema di pericolosità devastante. Nei quasi quattro secoli di sviluppo capitalistico, lo scettro dell'egemonia sistemica è più volte passato di mano (dall'Olanda all'Inghilterra, agli Stati Uniti), ma mai in modo pacifico. Mai attraverso un processo “concordato” in cui la superpotenza declinante veniva gradualmente supportata e sostituita da un'altra o da un pool di medie potenze. Ogni volta è la stata la guerra – addirittura due guerre, come nel caso del Novecento e del passaggio dall'Inghilterra agli Stati Uniti – a spegnere le residue velleità di resistenza dell'imperialismo ormai “vecchio”. Gli Stati Uniti di Obama, proprio come quelli di Bush, sono pericolosamente inclini a voler mantenere una leadership ormai ingiustificabile. A qualsiasi costo.

Non si spiega altrimenti la sordità ormai ventennale davanti a richieste “logiche” di paesi che non si presentano come “alternative di sistema” (nessuno dei Brics ha molto a che fare con il “socialismo”), ma semplicemente come nuovi soggetti dello sviluppo capitalistico. Più freschi, energici, “non saturi”.

A livello della moneta, per esempio, poteva essere uno slogan arrogante ma vincente, trent'anni fa, quello per cui “Il dollaro è la nostra moneta, ma un vostro problema”. Oggi è un problema anche per gli Stati Uniti, ma fanno finta di non essersene accorti. Perché non sanno che altro fare se non ripetere ossessivamente il vecchio gioco (distribuire al mondo le proprie crisi attraverso l'uso del dollaro come moneta globale).

Ma non è più ammissibile, per esempio, che la Cina abbia una quota di voto del 4,86% nel Fmi mentre quella Usa è del 16,77% o addirittura di quella tedesca (5,88) e quasi come l'Italia (3,66). Le due economie, come Pil in termini assoluti, sono ormai equivalenti (rimane una enorme distanza, ovviamente, nel Pil pro capite; ma questo non conta quando si “pesa” la forza di un paese-continente). Gli altri paesi Brics hanno un peso ancora minore: la Russia ha il 3,16%, il Brasile il 2,34%, l'India l'1,88%, il Sudafrica lo 0,54%. In totale il 13%; meno dei soli Usa, lontanissimo dal peso reale globale.

Il dollaro, che per ora rimane come moneta principale anche della nuova Banca Brics, sarà sostituito gradualmente con altre valute, man mano che si renderà necessario aiutare i paesi con problemi di liquidità. Un'alternativa esplicita al Fmi, probabilmente con condizioni meno soffocanti e omicide per le economie da “soccorrere”. Pensate all'Argentina dei "tango bond", se avesse potuto ricorrere a quest'altra fonte di salvataggio, invece che farsi impiccare dalle decisioni del Fmi...

Come ha spiegato subito Vladimir Putin: “L'istituzione della Banca per lo sviluppo dei Paesi Brics permette ai suoi soci di essere più indipendenti dalla politica finanziaria dei Paesi occidentali. E fa parte di un sistema di misure che potrebbe aiutare a prevenire le pressioni sui Paesi che non sono d'accordo con alcune decisioni di politica estera degli Stati Uniti e dei loro alleati”.

Certo, con questa decisione ci si poteva anche attendere che prima o poi sarebbe arrivata una risposta violenta da parte statunitense. Ma che un aereo malese cadesse vicino al confine russo, e così presto (Putin stava rientrando proprio su quella rotta, appena mezz'ora prima dell'abbattimento), forse non era prevedibile. Ma la rapidità delle reazioni è già un annuncio di guerra...

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