di Chiara Cruciati
Tikrit val bene una breve
ritirata: buona parte delle milizie sciite irachene ha rinunciato alla
prima linea nella controffensiva governativa per riprendere la città
sunnita occupata dall’Isis. Lo ha chiesto Washington in cambio del
sostegno aereo finora negato a Baghdad.
Il generale statunitense Austin, capo del Commando Centrale
Usa, ne ha parlato ieri al Senato: gli Stati Uniti hanno accettato di
partecipare con i raid aerei alla ripresa di Tikrit, se i miliziani
sciiti iracheni e le loro guide iraniane si fossero ritirate dalla prima
linea, occupata fin dall’inizio dell’operazione. “Non mi
coordinerò, né spero lo faremo mai, con le milizie sciite”, ha detto
Austin, smentendo la realtà sul terreno: la richiesta di ritirata è
stata accolta dai pasdaran iraniani e dalle potenzi milizie sciite
irachene, pur di vincere definitivamente la resistenza islamista a
Tikrit, comunità sunnita e città natale di Saddam Hussein.
Così in Iraq va in scena un spettacolo ben diverso da quello
in corso in Yemen: se nel piccolo paese del Golfo, Washington appoggia
l’operazione militare saudita in chiave anti-Iran, in Iraq il
coordinamento militare con Teheran – seppur ufficioso – esiste.
Perché l’obiettivo è lo stesso: cacciare lo Stato Islamico dal paese.
Poco importa se il prezzo da pagare è un rafforzamento dell’asse sciita
guidato dall’Iran che sta segnando più di una vittoria sul campo di
battaglia iracheno. Un prezzo che va bilanciato, soprattutto se sul
piatto della bilancia si mette anche il prossimo accordo sul nucleare: in
Yemen l’influenza iraniana e il potere militare e diplomatico
conquistato dalla leadership Rouhani vanno ridotti. Un colpo al cerchio e
uno alla botte.
A Tikrit la battaglia prosegue. A inizio marzo sembrava si dovesse
trattare di un’operazione lampo, ma l’esercito iracheno, sostenuto da
pasdaran iraniani, peshmerga kurdi e miliziani sunniti e sciiti, è stato
costretto a rallentare la marcia per permettere l’arrivo di unità
speciali addestrate al combattimento urbano. La resistenza
opposta dall’Isis era attesa (si parla ancora della presenza del
califfato nel 40% della città), ma lo stallo stava durando troppo. Da
qui la decisione della Casa Bianca di intervenire su richiesta di
Baghdad, dopo il rifiuto a partecipare all’operazione ufficialmente per il timore di un acuirsi dei settarismi interni iracheni.
La condizione posta da Washington – l’abbandono sciita della
prima linea – si accompagna ad una seconda imposizione: le milizie
sciite non dovranno partecipare alla stabilizzazione della città una
volta strappata all’Isis. Una richiesta difficilmente accettabile:
Baghdad intende far sentire la propria presenza e non può farlo
soltanto con l’esercito regolare, figlio delle purghe Usa nel
post-Saddam e non certo pronto a gestire tali operazioni. Il
premier al-Abadi ha bisogno dei miliziani sciiti, anche se questo
significherà un intensificarsi delle divisioni religiose interne:
le comunità sunnite in molti casi non hanno sostenuto l’avanzata delle
truppe governative per timore di ritorsioni da parte sciita e di un
ulteriore marginalizzazione politica.
Le potenti milizie sciite conoscono bene il loro ruolo e il potere
derivante dall’eventuale riconquista di Tikrit: in città sono state
dispiegate 30mila truppe, di cui ben 20mila miliziani sciiti gestiti
dall’Iran. Per questo, se le Kataib Hezbollah e le Asaib Ahl
al-Haq hanno sospeso la loro partecipazione all’operazione in città pur
criticando il governo di Baghdad per aver accettato l’imposizione Usa,
le milizie Badr (direttamente gestite e armate da Teheran) hanno già
fatto sapere di non voler arretrare. Soprattutto dopo aver fatto quasi tutto da sole.
“Le nostre truppe si ritireranno dalla prima linea, ma non lasceranno
il campo – ha detto Naim al-Aboudi, portavoce delle milizie Asaib Ahl
al-Haq, aggiungendo che i suoi miliziani manterranno le loro posizioni
intorno a Tikrit – Quando abbiamo discusso con il governo iracheno della
nostra partecipazione alla battaglia, abbiamo posto come condizione che
gli Usa non avrebbero interferito perché noi non ci fidiamo di loro”.
A preoccupare le fazioni sciite è che il modello Tikrit possa essere lo stesso applicato a Mosul, principale target di Baghdad.
Non è un mistero che al-Abadi veda nella controffensiva nella città di
Saddam la prova generale per riprendere la seconda città irachena,
Mosul, da giugno roccaforte dell’Isis. L’Iran e le milizie sciite stanno
compiendo un consistente sforzo per vincere da soli la guerra irachena
(i risultati ottenuti in poche settimane sono di gran lunga migliori di
quelli archiviati dalla coalizione guidata dagli Usa in mesi di
attacchi) e non intendono regalare la vittoria a Washington.
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