C’è però un aspetto che vorremo evidenziare, ed è legato alla richiesta di risarcimento avanzata dal Comune di Roma. Questa condotta pone sul piatto due diversi ordini di problemi, uno di natura squisitamente politica e l’altro – seppur sempre politico – più legato ad alcuni stratagemmi giurisprudenziali cui stanno ricorrendo le procure di tutta Italia.
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L’avvocatura di Roma ha chiesto 86mila euro per danni materiali e 500mila euro per danni morali e d’immagine ed ha ottenuto la possibilità di vantare un credito, fin dalla fine del primo grado di giudizio, di 150mila euro come provvisionali, ovvero un titolo ottenuto in attesa della liquidazione totale che verrà eventualmente predisposta a processo terminato. La gravità di questa operazione crediamo non meriti ulteriori parole: stiamo parlando di un dispositivo immediatamente esecutivo, il che vuol dire che non è necessario attendere che la sentenza penale diventi irrevocabile per poter effettuare un’esecuzione forzata. Entro 90 giorni dalla sentenza, infatti, verranno depositate le motivazioni e allo scadere di quel lasso di tempo il Comune di Roma potrà decidere se avvalersi del diritto (facoltativo) ad essere risarcito.
In linea con quanto accaduto già al processo per i NoTav sui fatti del 3 luglio 2011, dunque, la condotta della Procura di Torino ha segnato con forza il passo, creando un precedente politico e facendo giurisprudenza: a partire da questi due processi, così ravvicinati nel tempo e così simili sotto il profilo inquisitorio adottato dalla magistratura, dobbiamo ripeterci ancora una volta che il cambio di passo del paradigma repressivo ci costringe ad una nuova riflessione (collettiva) sull’adozione di strumenti di resistenza in grado però di esulare il solo ambito mutualista. Il rischio concreto, che qui possiamo solo accennare ma che dovrebbe divenire elemento comune di riflessione, è che la condotta politica della magistratura costringa tutte le anime di movimento ad un’attività di resistenza passiva, relegandoci in una dimensione difensiva in cui la proposta di un contrattacco politico dovrà di volta in volta essere tarata sul rischio concreto, materiale, minacciato dalla controparte.
Questa considerazione induce ad una seconda breve riflessione. Mentre fino a ieri l’impegno politico e la responsabilità che ne derivava chiamavano in causa la propria militanza davanti alla legge, rivendicando la legittimità delle proprie azioni anche in sede processuale (quindi, un’assunzione di responsabilità oggettivamente politica), con l’applicazione di misure pecuniarie il gioco cambia. La deterrenza cui mira lo Stato, in tempi di crisi, passa per l’appropriazione indebita dei beni materiali del militante politico, formulando il paradosso per cui in tempi di crisi economica esprimere la rabbia sociale non è un tema riconducibile al diritto, non chiama in causa eventuali dissensi imbavagliati, non passa per l’opportunità (ad oggi negata) di manifestare opposizione alle politiche d’austerity – ma diventa una questione economica, regolata da una logica finanziaria. Il diritto penale, dunque, sconfessa la sua vocazione “rieducativa” (con tutti i se e i ma che questa si porta oggi appresso) per tornare all’originale alveo “retributivo”, quello cioè in cui era il corpus normativo tramite cui regolare i rapporti di natura economica tra privati.
Anche esprimere la rabbia, dunque, ha un prezzo. Un prezzo commerciale, non politico, non misurato da capi d’imputazione, sentenze e condanne, ma da diverse migliaia di euro. Fare politica alzando il livello di conflittualità, al pari della questione alimentare e dell’accesso alla formazione, diviene una questione di classe. E se fino a ieri la magra consolazione è stata quella di imputare alla controparte la violenza nel reprimere il diritto al dissenso, nel reprimere la conquista dei nostri spazi di agibilità politica, in queste condizioni sembra essere un’altra la regola di base: fate il vostro gioco, noi poi presenteremo il conto. Insomma, in tempi di crisi, quale rischio si è pronti ad assumere? Crediamo che temi come questi debbano entrare di diritto nelle nostre discussioni, senza essere slegati dal contesto generale, senza che diventino materia di studio degli esperti della “repressione”, poiché questa rappresenta un aspetto centrale delle contraddizioni che combattiamo.
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Parlavamo prima di un aspetto squisitamente politico di questa assurda vicenda legata alla richiesta di risarcimento del Comune di Roma. Assurda perché i danni di immagine, prima di tutto, dovrebbero chiederli i cittadini romani a questa amministrazione così solerte e zelante che si è resa ridicola agli occhi di tutto il mondo politico per le sue larghe intese mafiose, tracciando non il famoso solco divisorio con l’amministrazione Alemanno che l’ha preceduta, ma un linea di continuità che rende evidente anche agli occhi dei più miopi come siano davvero nulle le diversità politiche (e talvolta ideologiche) tra il PD e il centro-destra moderato.
Una speciale menzione in questo letamaio la merita invece SEL. Non tanto per la sua capacità d’essere la stampella di un’amministrazione che fa la corsa alla destra moderata, scrollandosi di dosso anche le ultime parvenze di un centro-sinistra che da tempo fa le moine ad un elettorato liberista e a-sinistro, quanto perché al suo interno siedono oggi in Campidoglio elementi che hanno costruito la propria carriera politica sul variegato sostrato del movimento, persone e relazioni che quotidianamente muovono rapporti nel grande calderone della sinistra antagonista, o almeno con una sua parte.
Come si ricollega questa cosa al fattaccio del risarcimento? Iniziamo col dire che le decisione del Comune di Roma di costituirsi parte civile era stata assunta dalla giunta Alemanno e che l’attuale governo capitolino l’ha confermata, senza marcare dunque alcuna differenza con l’altra sponda politica nella lettura di quella giornata e di quel movimento che scosse le piazze italiane (non solo Roma) in quella stagione di lotta. Questo, chiariamo, non significa che ci aspettavamo da qualcuno un impegno tale da determinare un’inversione di tendenza o l’annullamento della richiesta, nonostante Luigi Nieri, ex OPR, oggi rivesta una carica – quella di vice-sindaco – non proprio irrilevante, anzi, e quindi una certa voce in capitolo avrebbe potuto anche averla. Tantomeno, a giochi fatti, avrebbe fatto comodo o piacere leggere una nota stampa in cui, nonostante la decisione dell’amministrazione, si rimarcava la propria vicinanza agli imputati. No. Questo fatto è importante perché serve a darci la misura delle cose, ed è proprio in casi come questi che alcune ambiguità non lasciano spazi a tattiche cerchiobottiste che per canali informali mostrano solidarietà e vicinanza mentre davanti alle telecamere e sui giornali prediligono invece un sobrio e algido convenevole politico. È in situazioni come queste, ripetiamo, che certe scelte politiche, certe intese e certi compromessi escono allo scoperto per quello che sono. È in situazioni come queste che non ci si può sottrarre ad una complicità e ad una responsabilità che appartiene a chi questa giunta la vive, la foraggia e la sostiene come opzione principale di governo. È in situazioni come queste che alcune mediazioni vengono meno e alcune maschere devono essere tirate giù, alcuni rapporti tracimano l’esasperato tatticismo e rischiano di divenire scelte strategiche. In alcuni momenti non c’è modo e tempo per tentennamenti, non c’è spazio per chi non sa da che parte stare. Sappiate che oggi è uno di questi momenti e la risposta che è stata data risulta quantomai chiarissima.
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