La lista della "riforme strutturali" che Tsipras e Varoufakis hanno fatto pervenire ai loro creditori (gli stati dell'eurozona, fondamentalmente) è in queste ore all'esame dei "giudici". Ma dal poco che è trapelato, la lista sembra lontana dalle "raccomandazioni ultimative" che da due mesi i vari Merkel, Dijsselbloem, Draghi, Schaeuble, Juncker elencano quasi come pre-condizioni per erogare finanziamenti ogni giorno più urgenti. Misure per ridurre la burocrazia e l'evasione fiscale, modifiche tributarie e lotta alla corruzione, alcune privatizzazioni (ma bisognerà vedere di cosa). Niente tagli a salari e pensioni, come da Bruxelles vorrebbero vedere. L'avanzo primario è fissato, come obiettivo, all'1,5% del Pil (per la Ue avrebbe dovuto essere del 3%, ed era già uno sconto rispetto al 4,5 fissato in precedenza). Nella speranza di incrementare le entrate di tre miliardi e realizzare una crescita dell'1,4% per l'anno in corso.
Il tutto mentre i rapporti con la Troika vengono investiti di continuo da una doccia scozzese (tra segnali di disponibilità a trattare e proposte considerate "indecenti" dai vertici europei), secondo una tattica ammessa dallo stesso viceministro delle finanze ellenico, Euclid Tsakalotos, «Stiamo creando ambiguità con i creditori in modo intenzionale, perché devono sapere che siamo pronti a una spaccatura, altrimenti non si può negoziare». Quindi, ad Atene, una sorta di "piano B" comincia a essere presa in seria considerazione.
Se il ragionamento da fare fosse solo economico, per Atene si spalancherebbero immediatamente le porte della cacciata dall'eurozona. Ma la necessità di tenere la Grecia dentro è avvertita anche dai "creditori". E non solo per l'effetto terremoto che avrebbe sulla moneta unica e la stessa credibilità dell'Unione Europea. L'analisi di Adriana Cerretelli, sul confindustriale IlSole24Ore - che al termine riportiamo - coglie benissimo la catena infernale di conseguenze geostrategiche di una eventuale uscita di Atene. Ma anche l'insostenibilità di una situazione che - se il governo Syriza non viene rapidamente ridotto all'obbedienza - potrebbe scatenare tentazioni emulative in altri paesi in forte difficoltà nel rispettare le condizioni capestro imposte dai trattati, o addirittura causare la caduta di governi fin qui inchinatissimi alla Troika, come quello della destra spagnola, che dovrà affrontare un difficilissima prova elettorale a fine anno.
Sottolineiamo, comunque, come il "problema della drastica riduzione della spesa sociale" comincia ad essere apertamente posto, e non più nascosto ("Lo stesso cancelliere del resto è convinto che, con solo il 7% della popolazione mondiale, il 25% del Pil ma il 50% della spesa sociale globale, l'Europa che invecchia non può mantenersi né salvaguardare il proprio welfare vivendo al di sopra dei propri mezzi indebitandosi ma deve ritrovare competitività").
E quindi un "piano B" prende corpo anche dal lato dell'Unione Europea...
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Resta aperta una «soft Grexit»
di Adriana Cerretelli
La Grecia va salvata per salvare l'integrità dell'euro e dell'Europa, ripete la narrativa ufficiale. E per molti questo resta ancora lo scenario preferito e preferibile. Di fatto, però, dietro le quinte Grexit sta diventando un'ipotesi sempre più corposa: il piano B su cui ripiegare qualora si esaurissero pazienza e più ragionevoli alternative a un accordo con il governo di Atene. Che ha finalmente presentato a Bruxelles il suo programma di riforme, anche se troppi temono una nuova falsa partenza.
Paradossalmente a remare contro i tira-molla negoziali di Alexis Tsipras è il nuovo ottimismo sulle prospettive di crescita dell'eurozona insieme ai benefici effetti promessi dal quantative easing della Bce di Mario Draghi. La speranza è che l'uscita dalla crisi e il ritorno della ripresa anche questa volta, come sempre in passato, si dimostrino il toccasana per una partnership stanca e sfiduciata, malata di euroscetticismo, nazionalismi crescenti, consensi popolari calanti. Purché non finisca per rallentare, come in passato, il passo delle riforme strutturali, si spera anche che il nuovo corso possa ricompattare gradualmente l'eurozona, provata dalle troppe divaricazioni Nord-Sud, centro-periferia indotte dal lungo settennato di sviluppo smorto o recessivo.
Questo scenario di lenta ma crescente ricostruzione di coesione e fiducia tra i partner della moneta unica varrebbe però per tutti, tranne che per la Grecia. Due mesi di dialogo infuocato ma improduttivo con la coalizione guidata da Tsipras non solo hanno ridotto, soprattutto in Germania, le attese circa il rispetto dei patti e un serio programma di rigore e riforme ma hanno diffuso un profondo scetticismo sulla effettiva capacità della Grecia, qualunque sia il suo governo (il precedente non ha rispettato il 60% degli impegni presi), di integrarsi nell'eurozona e di onorare i suoi debiti.
A frenare Grexit finora era anche una sorta di trappola istituzionale: l'adesione alla moneta unica è giuridicamente irreversibile, per questo l'eventuale abbandono dell'euro non potrebbe avvenire senza il contestuale abbandono dell'Unione, che invece è contemplato dai Trattati Ue. Nessuno però lo auspica per ragioni culturali, politiche e strategiche. L'Ue si ritroverebbe infatti con un “buco” sul fianco orientale in tempi decisamente tellurici, dal Medio Oriente al Nordafrica al Mediterraneo, tra destabilizzazioni a catena, minacce terroristiche, flussi migratori incontrollati. Per non parlare dei contraccolpi sul sistema di difesa Nato cui la Grecia appartiene, della contrarietà americana alla diserzione di un Paese che potrebbe diventare per Russia e Cina il mezzo da sbarco nella regione.
Per evitare contraccolpi geo-politici, Francia e Germania stanno studiando una reinterpretazione dei Trattati Ue che consenta, se necessario, di scaricare la Grecia dall'euro senza costringerla a uscire dall'Unione. L'operazione richiederebbe una decisione unanime dei 28. Persino un bastian contrario come la Gran Bretagna potrebbe in questo caso essere d'accordo per non creare un precedente che limitasse i suoi spazi negoziali nella ridefinizione dei propri termini di integrazione nel sistema-Europa.
In sordina, dunque, il piano B prende sempre più forma, non si capisce se anche nel tentativo di convincere Tsipras a imboccare la retta via o più semplicemente per non ritrovarsi impreparati di fronte a una lacerazione ritenuta inevitabile.
Angela Merkel resta riluttante al divorzio. Ma i suoi margini di manovra per scongiurarlo sono stretti tra il rigorismo della Cdu, il suo partito, la costante ascesa dell'AfD, la nuova formazione anti-euro, e la maggioranza dei tedeschi che per la prima volta risulta nei sondaggi a favore di Grexit . Lo stesso cancelliere del resto è convinto che, con solo il 7% della popolazione mondiale, il 25% del Pil ma il 50% della spesa sociale globale, l'Europa che invecchia non può mantenersi né salvaguardare il proprio welfare vivendo al di sopra dei propri mezzi indebitandosi ma deve ritrovare competitività.
La Merkel può mostrare, dunque, una flessibilità negoziale molto ridotta. Nemmeno Tsipras però può rimangiarsi il 100% degli impegni elettorali in un Paese stremato, alla disperata ricerca di una pausa nel rigore. Davvero sono inconciliabili i contrapposti interessi interni di Grecia, Germania ed Eurogruppo? Con le lenti nazionali di certo, con quella europea molto meno. C'è chi sostiene che con l'uscita di un'economia piccola e diversa, il contagio oggi sarebbe limitato e l'eurozona si razionalizzerebbe diventando più governabile e migliore. I dubbi sono leciti. Il rischio è che invece la finestra aperta sulla secessione spalanchi nuovi orizzonti psicologici, la marcia incontrollata dei pionieri dell'ignoto.
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