La forma dell’Organizzazione Politica.
Abbiamo visto come nello sviluppo delle varie fasi storiche, ad ogni cambiamento prodotto dallo sviluppo capitalista sia corrisposta una modifica dell’organizzazione di classe. Questa dinamica per noi è valida ancora oggi e rispetto alle analisi che abbiamo fatto, sia sul piano della oggettività che delle condizioni soggettive, riteniamo riacquisti peso un’ipotesi di organizzazione di quadri militanti. Il partito di massa, così come lo abbiamo conosciuto, è arrivato al suo epilogo grazie alle caratteristiche dei suoi gruppi dirigenti, caratteristiche non individuali ma prodotto di un profondo processo strutturale che è approdato alla nascita del PD e sul quale non ci dilunghiamo.
A partire dalla mutazione genetica nel PCI, dal suo scioglimento e con la nascita del PRC/PdCI, il partito comunista di massa ha ritenuto esaustiva la sua funzione nella società italiana basandosi su uno schema semplice, ripetuto ossessivamente e mai messo in discussione:
– il rapporto di massa delegato al rapporto con la Cgil, sempre più con la Cgil come apparato e sempre meno con i lavoratori;
– partecipazione alle elezioni a qualsiasi costo, intendendo con esse l’unica ragione d’esistenza in vita sul piano politico;
– attività politica limitata alla propaganda e mobilitazione limitata alle manifestazioni centrali, feste, campagne elettorali.
Occorre ammettere che questo schema si è rivelato nel tempo inadeguato ed inefficace, disastroso su tutti e tre i punti. Non solo. Da questo modello di funzione politica è praticamente scomparso il tema dell’organizzazione cioè di come, dove, quando il partito organizza concretamente e – con quali strumenti propri – i settori sociali di riferimento.
Il modello dei tre fronti (strategico/ideologico, politico, sociale/sindacale sul quale torneremo successivamente) ipotizzato dalla Rete dei Comunisti, ha cercato di rispondere non solo alla crisi dei partiti comunisti tradizionali ma anche di mettere a disposizione un modello da discutere, verificare, sperimentare, un’ipotesi che è stata rimossa o rigettata sistematicamente dalla discussione nei e dei partiti comunisti esistenti in Italia dopo lo scioglimento del Pci.
In altre parole il partito di massa in questa fase storica è troppo “debole” e con troppe contraddizioni interne per affrontare le difficoltà di un passaggio complesso; in questo senso va ridato ruolo alla qualità dell’analisi e delle relazioni interne all’organizzazione, alla capacità di interpretare e costruire il conflitto di classe, alla formazione dei quadri ma anche di orientamento di ambiti sociali di “avanguardia”, tutto ciò ovviamente nei limiti delle possibilità date. Quello che deve emergere è un modo sostanzialmente diverso di come si è vissuto in questi anni e di come ancora si vive la militanza, dove la formazione politica si sostituisce all’attivismo periodico nelle scadenze elettorali e dove la necessità di costruire sistematicamente il conflitto e l’organizzazione di classe diviene un elemento centrale dell’azione dei comunisti nella società. Quello che proponiamo non è certo un’idea già definita di organizzazione, ma di ragionare sui presupposti che possano produrre un’ipotesi d’organizzazione comunista in sintonia con i tempi e con la sua collocazione in un’Unione Europea imperialista.
1) l’Organizzazione militante di quadri. La scelta del “partito dei quadri” dunque non è volontaria né dettata da settarismo, peraltro molto “impegnativo” e poco gratificante, ma è data dalla situazione; ciò non significa che quest’ipotesi sia esaustiva, si tratta di un passaggio obbligato per ridare credibilità di massa alla possibilità di cambiamento. Ritorna in ballo l’importanza della soggettività ed in questo senso ripartire dal “CHE FARE?” significa trovare un valido riferimento teorico per ricostruire un’ ipotesi sapendo che quest’elaborazione e verifica vanno fatte nelle condizioni odierne. Vale comunque la pena di ribadire che parlare di partito di quadri non significa porre un limite quantitativo e dunque avere necessariamente un approccio minoritario bensì, significa mettere al centro la qualità della militanza, la maturità dei singoli compagni che devono essere coscienti della complessità del compito che si sono scelti, oltre che darsi un’organizzazione in grado di sostenere l’impegno collettivo ed individuale richiesto.
Capacità di sintesi e rapporto di massa, organizzazione e spontaneità sono questioni estremamente moderne riportate in auge dalla riorganizzazione capitalista e dal nuovo livello di sviluppo delle forze produttive, che stanno determinando a livello mondiale una nuova situazione di movimento e dunque di apertura di spazi per le alternative. Partito o organizzazione di quadri, perché deve affrontare situazione in evoluzione con i caratteri detti. Ricostruire dunque un intellettuale collettivo significa misurarsi con i problemi dell’egemonia e della teoria oggi, e questo non può essere fatto da un corpo militante che è tale in occasione degli “eventi” politici o delle scadenze elettorali.
L’inadeguatezza di un tale agire è palese ed è inutile spiegarla; il problema che abbiamo è come predisporsi per il suo superamento. La sinistra anticapitalista, sia in Italia che più in generale in Europa, deve fare i conti con un protagonismo movimentista affermatosi in modo particolare sopra la forma partito dopo il crollo del blocco sovietico. In un quadro simile, con un livello particolare ed una coscienza di classe ai minimi termini, riproporre oggi la struttura del partito di massa può essere un grave errore strategico. Il problema dell’organizzazione politica non è quantitativo ma qualitativo; in tal senso riprendere oggi l’insegnamento di Gramsci significa affrontare nello specifico le “quistioni” della formazione e dell’autoformazione, della preparazione dei quadri, con un’etica ed una precisa disciplina rivoluzionaria.
Se le dinamiche storiche che abbiamo cercato di estrapolare sono minimamente azzeccate, e cioè la disgregazione della classe nella produzione flessibile, la complessità sociale dei centri imperialisti, le caratteristiche inedite dei sommovimenti politici legati alla nuova condizione sociale e di classe (da noi la realtà del M5S o dei populismi di destra in Europa) ne consegue, anche qui, la necessità di un approccio qualitativo che non può essere sostituito da nessun protagonismo politico/elettorale visto lo spessore delle questioni che si pongono di fronte ad una seria ricostruzione di una realtà comunista, partito od organizzazione che sia.
2) Militanza e coscienza di classe. Questo salto qualitativo dell’agire di un’organizzazione comunista non può non misurarsi con il contesto in cui deve maturare una moderna coscienza di classe, in relazione diretta con l’impegno militante individuale che sta alla base di una tale organizzazione; su questo aspetto è ineludibile un approfondimento analitico e teorico. Nelle fasi precedenti, infatti, il rapporto tra partito e soggetto sociale, la classe operaia propriamente detta, era un rapporto diretto e funzionale, ovvero la lotta politica per le classi subalterne si associava ad una possibilità di emancipazione anche a livello individuale; chi faceva militanza, partendo da una condizione sociale di classe e subalterna, faceva di quest’impegno il suo punto di forza e d’identità personale per “progredire” anche sul piano culturale.
Tutto ciò oggi può essere solo parzialmente vero se riferito alle modalità classiche del movimento operaio, ad esempio per i lavoratori immigrati che vivono una condizione di sfruttamento e di degrado sociale. Si pone, perciò, il problema dei settori sociali proletarizzati e penalizzati da questo sviluppo, spesso composti da lavoro intellettuale piuttosto che manuale, che devono anch’essi trovare gli elementi d’identità e di emancipazione che li spingano ad impegnarsi fino a modificare la propria visione del mondo, cioè quella ora fornita dal sistema dominante. Questo elemento va ben evidenziato perché mentre sembra teoricamente corretto parlare di partito di militanti, sappiamo bene che la società non produce automaticamente soggetti disponibili a questa relazione, almeno questo è quello che ci dice la nostra esperienza diretta, e questa difficoltà si manifesta mentre i militanti della nostra variegata sinistra rischiano di ripiegare e individualizzarsi ancora di più sotto il peso di nuove sconfitte e con il passare del tempo.
3) La nostra critica alla “rifondazione comunista”. La nostra impostazione e i nostri ragionamenti sulla questione del partito non possono non fare i conti con la storia concreta nel nostro paese della Rifondazione Comunista, al di là delle sue forme e delle evoluzioni diversificate che ha preso nell’arco degli ultimi 25 anni. Indubbiamente essa è stata tra le esperienze più significative dell’Europa occidentale perché, chi all’epoca decise di rompere con il PDS, poté gestire un capitale politico ed umano che il PCI e quella che era stata la sinistra extraparlamentare, ritrovatisi alla fine assieme nel PRC, avevano lasciato dopo la scissione di Occhetto dal comunismo. Nonostante che molti compagni/e della RdC siano passati dentro l’esperienza di quel partito, questa si è trovata fin dall’inizio fuori da quell’ambito a causa della divaricazione esistente tra l’analisi dei processi complessivi, che all’epoca cominciavano a segnare elementi di novità e la dinamica che prendeva corpo dal Movimento per la Rifondazione Comunista, al Partito della Rifondazione fino all’assunzione di Bertinotti alla segreteria politica. Va tenuto conto che quella scelta di estraneità fu all’epoca cosa difficilissima vista la capacità attrattiva di un’esperienza che alla sua nascita disponeva già di un potenziale politico e quantitativo molto consistente, tanto da raccogliere decine di migliaia di iscritti e da raggiungere successivamente circa il 10% dell’elettorato.
Nonostante le critiche fatte all’epoca sulla politica di quel partito, che ha avuto sempre come riferimento contraddittorio le varie mutazioni del PCI, dal PDS al PD, ed i governi di centrosinistra a guida, soprattutto, di Prodi non erano per noi queste il cuore della questione. Certamente la scelta di approvare il pacchetto Treu sulla precarietà, le giravolte sulle varie riforme delle pensioni fino ai molti voti a favore degli interventi militari, hanno segnato la divaricazione e spesso anche la contrapposizione di piazza; come avvenne ad esempio in occasione del 9 Giugno del 2007 nelle manifestazioni contro Bush dove la sinistra, allora di governo, venne letteralmente isolata da una manifestazione di decine di migliaia di persone che protestavano in alternativa al presidio della sinistra.
I punti di critica e diversificazione effettivi sono stati, invece, sempre di tipo strategico in quanto elementi evidenziati nelle nostre analisi anche se in realtà esse non hanno mai avuto cittadinanza politica in una sinistra “radicale” che oggi paga il fio della sua inconsistenza analitica e teorica. I punti su cui abbiamo battuto per anni sono questioni che oggi emergono dalla realtà dei fatti, ma che nascevano da un tentativo di non abbandonare la cassetta degli attrezzi marxisti nella visione del mondo. Vale la pena di ricordarne alcuni di questi punti.
– Certamente la questione dell’imperialismo, ovvero degli imperialismi. L’innamoramento strumentale verso la teoria dell’Impero prodotta dal pensiero di Toni Negri, grandemente sponsorizzato dal segretario Bertinotti, è stato certamente il punto dirimente della nostra divergenza con il pensiero maggioritario che viaggiava all’epoca tra i comunisti. Questa divergenza non è stata puramente teorica in quanto ha assunto nel tempo una valenza politica attorno alla natura della Unione Europea che dagli anni ’90 si è sempre più rafforzata creando prima la moneta unica e poi, di crisi in crisi, configurandosi sempre più come una nuova dimensione statuale in formazione.
Oggi la divaricazione è totale e la vicenda greca della scorsa estate ha portato alla luce le due tendenze che si sono manifestate tra i comunisti ed il movimento di classe. Pensare di democratizzare l’UE è un discrimine direttamente politico, evidente e che produce schieramento. L’errore anche in questo caso sarebbe di non continuare ad elaborare le analisi autonome sulla natura del soggetto imperialista subordinandole alle manifestazioni contingenti e contraddittorie che si producono nel corso della competizione internazionale e delle tattiche che gli imperialismi adottano.
– Un altro punto di divaricazione conseguente è stata la valutazione sulla condizione della classe reale che si veniva configurando nel paese e nel nostro continente. Il processo di costruzione del Polo Imperialista Europeo è stato un fatto strutturale, anche se è il prodotto di una strategia politica delle classi dominanti europee; un fatto che si è collocato dentro la mondializzazione effettiva del Modo di Produzione Capitalista, che ha prodotto una profonda ristrutturazione produttiva, finanziaria, commerciale ed infine sociale, del mondo del lavoro ed ideologica. Tutto ciò ha inciso su quella che abbiamo definito la composizione di classe, che oggi assume forme storicamente inedite e produce la necessità di analizzare a fondo la condizione sociale in cui agiamo e che viene sistematicamente rivoluzionata dalle contraddizioni del capitalismo.
Non solo non abbiamo la composizione di classe di fabbrica e operaia degli anni ‘70 ma quest’ultima è coinvolta nei processi economici che si sono sviluppati negli ultimi decenni. Abbiamo visto nei decenni passati, infatti, la formazione di un’aristocrazia salariata, simile a quella operaia analizzata a suo tempo da Lenin, fatta di lavoro dipendente ed autonomo, orientata verso il consumo ed il sostegno al mercato, che politicamente è stata la base sociale del centro sinistra, ed in parte anche dalla sinistra. Formazione sociale che si è fatta subalterna, grazie alla propria condizione di relativo privilegio verso il resto del mondo, allo sviluppo generale attuale, incluso quello della tendenza alla guerra. Oggi questa condizione, che ha segnato la situazione almeno fino all’inizio della crisi nel 2007, è in via di superamento perché la crisi in atto sta riproducendo i processi di diseguaglianza e di proletarizzazione classici dello sviluppo capitalista, anche del lavoro intellettuale, che nel contesto attuale penalizzano i settori sociali ed i popoli del sud Europa come la vicenda greca, ma anche quella spagnola, portoghese ed italiana, stanno plasticamente dimostrando.
– E’ esattamente in questo contesto che abbiamo mosso la critica al partito comunista di massa non perché lo ritenevamo sbagliato in base ad astratti principi politici ma perché ci sembrava che si stessero creando le condizioni storiche e materiali per il suo superamento. Né i gruppi dirigenti comunisti percepivano questi cambiamenti in quanto i riferimenti assunti erano quelli della politica contingente cosa che significava sostanzialmente pensare alle elezioni come ambito prioritario della politica e della stessa sopravvivenza di partito. Errore di calcolo, questo, che oggi appare in modo lapalissiano in quanto il partito comunista di massa è di fatto scomparso, al di là di ogni scelta, con la rescissione di tutti i legami sociali in nome della politica mentre il partito di quadri, l’unica forma che potrebbe tenere nella bufera storica in cui siamo immersi, è fuori da ogni concezione essendo stato semplicemente rimosso dalla cultura politica dei comunisti.
– Ma la concezione del partito di massa, trascinata in un contesto storico diverso, ha prodotto anche un altro danno che ha approfondito le difficoltà dei comunisti. Ci riferiamo alla questione sindacale; se la scelta strategica, infatti, è stata quella di salvaguardare il carattere di massa e dunque elettorale, sul piano sindacale le relazioni ed i progetti non potevano che privilegiare i rapporti con la CGIL. Da tempo era a tutti evidente la degenerazione di quel sindacato, CISL e UIL l’avevano preceduta, con le politiche concertative e poi complici che hanno avuto l’unico obiettivo di contenere il conflitto di classe. Dire queste cose oggi è una ovvietà in quanto è la CGIL stessa che si premura di eliminare tutti quei soggetti che sono “fuori linea” e sospetti di una pur parziale dissidenza. Questa strategia disastrosa è stata politicamente giustificata con la necessità di dare battaglia dentro il sindacato storico di classe, quando erano già evidenti i processi di degenerazione, ma in realtà ciò rifletteva la debolezza teorica e pratica della rifondazione in atto, incapace di rapportarsi ed organizzare direttamente i settori di classe con propri progetti indipendenti. Tutto sommato, quello che andava salvaguardato era il bacino elettorale rappresentato dal sindacato che una scissione della CGIL non avrebbe garantito di mantenere.
– Giustamente non possiamo dimenticare la questione dei movimenti ovvero del “movimento dei movimenti” così come venne definito. Questa ha un versante tattico legato a quel momento politico che è stato quello che prevalse all’epoca; non a caso il PRC di Bertinotti, oggi fan di Comunione e Liberazione, raggiunse il massimo del risultato elettorale. Ma c’è anche un versante strategico sul quale vale la pena di ragionare; non si può certo nascondere la dimensione di massa raggiunta, che nei primi anni 2000 portò ad ipotizzare una rinascita della sinistra “antagonista”. A quel movimento partecipammo anche noi in varie forme, oltre quella diretta della RdC, in quanto ravvisavamo una opportunità con la quale misurarsi. Detto in termini diretti se la sinistra comunista si era imbarcata e spaccata nella vicenda governativa di Prodi, riprodottasi fatalmente poi nel 2006, tutto quello che era stato il corpo sociale in particolare legato al PCI, che andava dalla CGIL/FIOM all’ARCI alla Lega delle Cooperative all’associazionismo pacifista e cattolico insomma tutta la sedimentazione culturale e sociale prodottasi dal dopoguerra, trovò una sua autonomia di movimento in una situazione di crisi politica della sinistra e di incipiente pericolo berlusconiano. Una possibilità, creatasi anche grazie al movimento di Seattle, che venne consumata negli anni successivi nel tatticismo, nelle scadenzismo elettorale e nel carrierismo individuale a noi tutti ben noto. Dunque dopo la consunzione politica dei partiti c’è stata la consunzione materiale di quel blocco sociale che sosteneva la sinistra nel nostro paese. Se quella sinistra diffusa, che poi è stata la base di tante mobilitazioni fatte anche contro le proprie rappresentanze istituzionali, oggi vive anch’essa una condizione di disgregazione e dispersione le responsabilità non possono che essere ricercate in una rifondazione che non ha saputo, voluto, essere direzione politica realmente antagonista così come invece si affermava.
In sintesi. Quello che stiamo proponendo non è certo un’ipotesi di partito, che non può che nascere nel conflitto di classe se i comunisti riescono a trovare le forme ed il modo per riproporsi come “avanguardia”, come si usava dire in altri tempi. E’ piuttosto il tentativo di riaprire la discussione su un piano che è stato completamente rimosso o che è stato delegato agli intellettuali i quali hanno fatto molti danni, ovviamente perché lasciati a se stessi e senza un termine medio di rapporto con la realtà di classe del paese. Proporre un seminario e non un convegno in cui si sostengono tesi definite significa aprire un confronto senza velleità o riduzioni organizzativistiche ma con la necessaria determinazione. Infatti la fase che si apre, le contraddizioni che si esprimeranno e le loro forme saranno del tutto inedite e, questa volta, non c’è nemmeno a disposizione quel capitale politico ed umano che negli anni ’90, pur su linee politiche poi rivelatesi sbagliate, ha permesso un protagonismo politico significativo e movimenti di massa nel nostro paese.
Nessuna sintesi organizzativa immediata ma la necessità di un confronto e di un approfondimento teorico che sia anche di formazione per le giovani generazioni; siamo disponibili ad istituire, anche formalmente, una sede stabile e periodica in cui il confronto tra comunisti sia libero dalle contingenze politiche ma che funga da bussola per il loro agire politico e nel rapporto con la classe reale del nostro paese.
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