“Stiamo
assistendo alla fine del falso Stato islamico (Is), la liberazione di
Mosul lo dimostra. Non ci inteneriremo. Le nostre coraggiose forze
armate vinceranno”. E’ un al-Abadi eccessivamente trionfante quello che
ieri pomeriggio, poco dopo la presa della moschea di al-Nuri da parte dei suoi uomini, ha dichiarato la fine dell’autoproclamato califfato.
Le parole del premier iracheno sono infatti da prendere con le pinze:
sebbene come entità statuale in Iraq non esista più, l’Is non è stato
ancora sconfitto né nella sua “capitale” irachena, né, soprattutto, in
Siria dove conserva ancora varie zone del Paese.
Tuttavia, sarebbe ingiusto negare i progressi militari compiuti ieri a
Mosul dai suoi uomini: già all’alba, infatti, le truppe irachene erano
avanzate nella città vecchia dove i jihadisti provano un’ultima
disperata resistenza. L’esercito si è mosso lentamente in quello che era
un tempo un centro brulicante di vita e ora è ridotto a un cumulo di
macerie. Poi, nel primo pomeriggio, la notizia da giorni attesa: i
militari hanno raggiunto la simbolica moschea di al-Nuri. Simbolica
perché proprio qui il leader dell’Is Abu Bakr al-Baghdadi aveva fatto la
sua unica apparizione pubblica nel luglio di tre anni fa dichiarando la
nascita del “califfato”.
L’emblema della ormai imminente fine dello Stato Islamico (almeno
come entità statuale) è proprio nella distruzione della scorsa settimana
di questa moschea e del suo iconico minareto. Una distruzione di cui,
al momento, è difficile capire chi sia stato il responsabile: l’Is punta
il dito contro i raid della coalizione internazionale a guida Usa.
Accusa respinta con forza dagli americani (“non abbiamo condotto
bombardamenti in quell’area e al tempo del suo abbattimento”) che
contrattaccano: sono stati i jihadisti.
Poco importa accertare la verità dei fatti, comunque, quando i combattimenti proseguono: la battaglia per la città vecchia di Mosul, iniziata otto mesi fa, non è ancora terminata. L’esito appare però scontato: Baghdad, infatti, afferma che l’Is controlla ormai meno di 2 chilometri quadrati della città. Il
prezzo per la sua “liberazione” ha avuto un conto salatissimo: accanto
alle case distrutte e danneggiate ci sono tanti civili morti a cui bisogna dare ora degna sepoltura.
“Ci sono centinaia di cadaveri sotto le macerie” ha detto il Maggiore
Dhia Thamir delle forze speciali. “Ma sono tutti di Daesh [acronimo
arabo per indicare lo Stato islamico, ndr]. Una dichiarazione smentita
dal suo collega, il Maggior generale Sami al-Aridi: “Certamente – ha
detto all’Ap – ci sono danni collaterali, va sempre così in guerra. Le
abitazioni erano molto vecchie e così un bombardamento ne provoca il
loro totale collasso”. Crolli che hanno seppellito chissa quanti
cittadini.
Se il premier iracheno al-Abadi ha usato ieri toni eccessivamente trionfanti, molto più pacato è stato il portavoce della coalizione Usa, il Colonello Ryand Dillon. Incalzato dalle domande dei giornalisti al Pentagono, Dillon ha infatti dichiarato che “la Città vecchia resta una battaglia difficile, densa e soffocante: vicoli stretti con trappole esplosive, civili e combattenti dell’Is in ogni angolo”. Ciononostante, ha rassicurato: “La vittoria è imminente: questione di giorni piuttosto che di settimane”.
I dati delle Nazioni Unite sembrerebbero dargli ragione: in città
restano ancora 300 combattenti jihadisti e 50.000 civili intrappolati.
A quest’ultimo gruppo non fanno più parte un migliaio di persone che
ieri sono riusciti a mettersi in fuga portandosi con loro le ultime cose
rimastegli: documenti, foto di famiglia, latte in polvere per i
neonati, pannolini e qualche vestito. Ma purtroppo anche ricordi di
morte: “Abbiamo visto tanti corpi sotto le macerie mentre fuggivamo” ha
detto all’Ap il cittadino Mohammd Hamoud che è scappato dal centro
cittadino con sua moglie e i suoi figli. “Un uomo – ha aggiunto – era
ancora vivo. Ci chiedeva aiuto, siamo riusciti a tirarlo fuori dalle
macerie, ma era così ferito che abbiamo dovuto lasciarlo lì perché non
potevamo portarlo con noi”.
Il dramma vissuto da Mohammad e dalla sua famiglia è simile a quello di altri 850.000
civili che, sostiene l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni,
hanno dovuto lasciare la città durante l’offensiva diventando sfollati
interni.
Direttamente connesso agli eventi iracheni è quanto accade in Siria. Ieri
l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw) ha
confermato che il 4 aprile a Khan Sheikhoun (vicino Idlib, nel nord del
Paese) è stato usato il gas Sarin o “qualcosa di simile” (il suo
utilizzo è vietato dall’Onu). Il gruppo ha fatto sapere di
essere giunto a queste conclusioni dopo aver intervistato testimoni ed
esaminato i campioni di sangue delle vittime.
Ora la palla passa ad una commissione dell’Onu che cercherà
di stabilire chi è stato il responsabile dell’attacco che ha causato
oltre 90 morti e centinaia di feriti. Gli Stati Uniti, e gran
parte dei Paesi occidentali, sono convinti che ad aver compiuto
l’attacco sia stato il presidente siriano Bashar al-Assad. Tre giorni
dopo i fatti di Khan Sheikhoun, Washington avrebbe lanciato un attacco
di rappresaglia sulla base aerea di Shayrat con 59 missili Tomahawk.
Damasco e Mosca negano qualunque responsabilità sostenendo che la
nube tossica si è sprigionata dopo un raid con armi convenzionali su un
centro dei “ribelli siriani”. Questa struttura, ha detto il governo
siriano, veniva usata anche come deposito di sostanze utilizzate per
fabbricare armi chimiche rudimentali dagli effetti simili ai gas
nervini.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento