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04/03/2015

Nemtsov e la propaganda anti-russa

di Michele Paris

L’assassinio nel pieno centro di Mosca del leader dell’opposizione “liberale” russa, Boris Nemtsov, come prevedibile è stato sfruttato da governi e media ufficiali in Occidente per orchestrare una nuova campagna di discredito nei confronti di Vladimir Putin. Se nessuno, o quasi, ha per ora collegato l’esecuzione del 55enne ex vice-primo ministro direttamente al Cremlino, le reazioni isteriche registrate a Washington, Londra e Berlino, assieme alle dichiarazioni di condanna e alle richieste per una rapidissima indagine sull’accaduto, intendono lanciare un messaggio inequivocabile: cioè che il responsabile quanto meno morale dell’accaduto non può essere altri che lo stesso presidente russo.

Il premier britannico David Cameron, dopo avere invocato un’indagine “trasparente”, apparentemente senza imbarazzo, ha elogiato il defunto Nemtsov per la sua “vita dedicata a un impegno instancabile per il popolo russo, per il diritto alla democrazia e per la libertà”, nonché per mettere “fine della corruzione”.

Identico auspicio per lo scioglimento rapido del mistero dell’assassinio è stato espresso dalla Casa Bianca, da dove Nemtsov è stato definito un “instancabile difensore dei diritti dei cittadini”. Angela Merkel, a sua volta, si è detta “sconvolta” dalla morte di quest’ultimo, per poi celebrare il suo “coraggio nel criticare le politiche del governo” di Mosca.

Accuse più esplicite a Putin per avere causato per lo meno indirettamente la morte di Nemtsov sono giunte invece prevalentemente dai commentatori dei giornali “mainstream” occidentali, da politici che ruotano attorno all’opposizione “non ufficiale” e filo-occidentale russa o, ancora, dai deliri senili di “falchi” come il senatore repubblicano americano John McCain.

A seconda dei casi, Putin sarebbe così responsabile di avere creato un “clima di odio” tra la popolazione che ha portato all’assassinio di Nemtsov (New York Times) o un “clima di impunità”, nel quale gli oppositori del Cremlino “vengono costantemente perseguitati e attaccati, anche dal governo russo, per le loro idee” (McCain).

Al di là della pressoché innegabile natura autoritaria del governo di Vladimir Putin, una riflessione razionale sui fatti di venerdì scorso a Mosca non può che confermare la totale incertezza sui veri responsabili dell’assassinio di Nemtsov.

Le modalità e i tempi dell’esecuzione, inoltre, sollevano parecchie perplessità, poiché sembrano essere stati scelti dagli assassini proprio per dare il maggiore rilievo possibile all’evento. Infatti, il politico russo è stato ucciso nei pressi del Cremlino e meno di due giorni prima di una manifestazione di piazza dell’opposizione che egli stesso avrebbe dovuto guidare.

Se Putin o qualcuno della sua cerchia fossero stati i mandanti, è evidente che avrebbero commesso un clamoroso autogol, alla luce delle prevedibili reazioni in Occidente in un momento in cui le tensioni sono già alle stelle per la crisi in Ucraina. Da tenere in considerazione, inoltre, il fatto che Nemtsov rappresentava una modestissima minaccia per il Cremlino, se non, al limite, nella misura in cui avrebbe potuto rientrare in un disegno per il cambio di regime a Mosca orchestrato da Washington sul modello di quanto accaduto a Kiev un anno fa.

Malgrado ciò, in Occidente qualsiasi seria considerazione sulla vicenda è stata messa da parte per rinvigorire la crociata anti-Putin in atto, esattamente come era stato fatto la scorsa estate all’indomani dell’abbattimento dell’aereo della Malaysia Airlines (MH-17) sui cieli ucraini. In quell’occasione, l’attentato era stato immediatamente attribuito alla Russia o ai “ribelli” filo-russi - nonostante gli indizi indicassero piuttosto possibili responsabilità del regime o delle forze armate di Kiev - con il consueto accompagnamento di una campagna diffamatoria nei confronti del numero uno del Cremlino.

All’interno del governo di Mosca, in ogni caso, il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha definito l’assassinio una “provocazione”, messa in atto per destabilizzare la Russia e, inevitabilmente, supportare i tentativi occidentali di costruire un’alternativa percorribile all’attuale regime.

Questo sembra essere anche il punto di vista che caratterizza l’indagine avviata dalla Commissione Investigativa, la quale fa capo al Cremlino e che starebbe valutando possibili ulteriori connessioni con la crisi in Ucraina o il fondamentalismo islamico. Nemtsov era fortemente critico della gestione della vicenda ucraina da parte di Putin, mentre aveva apertamente appoggiato il settimanale satirico francese Charlie Hebdo dopo la strage nella redazione parigina nel mese di gennaio.

L’altro aspetto assurdo emerso dalle cronache occidentali di questi giorni è il ritratto di martire della democrazia di Boris Nemtsov, il cui curriculum lo colloca piuttosto tra politici di destra che hanno contribuito alla somministrazione di rovinose politiche economiche ultra-liberiste nella Russia post-sovietica.

Poco più che trentenne, negli anni Novanta Nemtsov venne nominato governatore della regione di Nizhny Novgorod e successivamente ricevette la chiamata da Boris Yeltsin per trasferirsi a Mosca a ricoprire la carica di ministro dell’Energia e in seguito di vice-primo ministro.

Nemtsov era considerato una sorta di protetto del defunto presidente russo tanto da essere stato indicato a un certo punto come suo possibile successore. In quegli anni, Nemtsov fu tra i protagonisti dell’implementazione di una vera e propria terapia d’urto per favorire la transizione al capitalismo nell’ex Unione Sovietica, promuovendo, tra l’altro, privatizzazioni selvagge e lo smantellamento del welfare, creando così da un lato una classe di oligarchi multi-miliardari e, dall’altro, povertà dilagante e devastazione sociale tra la popolazione.

Secondo un ritratto pubblicato domenica dall’agenzia di stampa ufficiale russa Sputink, a partire dal 2003 Nemtsov si sarebbe occupato più di affari che di politica e con un certo successo, visto che le sue entrate totali nel 2008 ammontavano a oltre 7 milioni di dollari.

Dal 2012, poi, l’ex vice-premier era alla guida del Partito Repubblicano Russo-Partito Popolare della Libertà, mentre nel 2013 era tornato alla politica attiva con l’elezione a membro del parlamento regionale di Yaroslavl.

L’abbraccio dei valori democratici da parte di Nemtsov, comunque, era giunto soltanto in concomitanza con le sue sventure politiche, cioè dopo l’estromissione dal governo, e, come molti altri membri dell’opposizione “liberale” russa, anch’egli si sarebbe ben presto allineato ai governi occidentale, in particolare a Washington, con la speranza di tornare a occupare una posizione di potere grazie all’aiuto americano.

Precisamente per questa ragione, assieme al convinto sostegno a politiche di libero mercato, l’opposizione appoggiata dall’Occidente risulta profondamente screditata tra la popolazione russa ed è in grado di raccogliere qualche consenso solo all’interno della classe media relativamente benestante.

La stessa marcia di protesta andata in scena domenica a Mosca, e trasformata in un evento in memoria di Nemtsov, ha registrato la partecipazione di qualche decina di migliaia di persone solo in seguito al clamore suscitato dall’assassinio di due giorni prima. Nei giorni scorsi, invece, tra gli stessi organizzatori era forte la preoccupazione per un possibile flop della manifestazione, in linea appunto con l’incapacità dell’opposizione “liberale” e filo-occidentale di rappresentare una qualche alternativa credibile al governo dell’odiato Putin.

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