Un terremoto potrebbe travolgere le tradizionali e fortissime
relazioni tra Stati Uniti e Israele. Un terremoto chiamato Netanyahu. La
rielezione del primo ministro martedì scorso non ha fatto fare i salti
di gioia al presidente Obama, con cui i rapporti sono da tempo sfibrati.
Ma se in Medio Oriente esisteva una certezza era l’appoggio
incondizionato da parte di Washington a qualsiasi premier israeliano.
Anche quella certezza, ora, potrebbe sbriciolarsi: ieri
l’amministrazione Obama ha sollevato la possibilità di ritirare la
propria copertura diplomatica a Israele alle Nazioni Unite, se la
rinnovata leadership proseguirà nel dichiarato obiettivo di boicottare
la soluzione a due Stati. Bibi lo aveva annunciato il giorno
prima delle elezioni del 17 marzo, nell’estremo tentativo – riuscito –
di accaparrarsi i voti della destra e del centro-destra: “Se vinco io,
non ci sarà mai uno Stato di Palestina”.
Una dichiarazione che, se ai palestinesi non è suonata affatto nuova, ha preoccupato Unione Europea e Casa Bianca. Entrambi
sanno bene che sul terreno Israele ha sempre impedito, attraverso la
colonizzazione selvaggia dei Territori e le intoccabili pre-condizioni
poste al tavolo del negoziato, il raggiungimento di un accordo di pace
definitivo. Ma simili dichiarazioni spaventano. Provocando
l’impensabile: la campagna elettorale è stata “cinica e divisiva”,
dicono gli Usa, “un tentativo abbastanza chiaro di marginalizzare gli
arabi cittadini israeliani”.
“I passi che gli Stati Uniti hanno compiuto alle Nazioni Unite sono
stati basati sull’idea che la soluzione a due Stati sia il miglior
risultato – ha detto ieri il portavoce della Casa Bianca, Joshe Earnest –
Ora il nostro alleato ha detto che non si ritiene più impegnato
a raggiungere tale soluzione. Ciò significa che dovremo rivalutare la
nostra posizione in materia”.
Se davvero gli Stati Uniti abbandonassero Israele nella giungla delle
Nazioni Unite, dove spesso a salvare Tel Aviv da risoluzioni e condanne
è stato il veto Usa, per Netanyahu potrebbe mettersi male. Dopotutto Israele vive grazie ai finanziamenti statunitensi che coprono buona parte del budget dell’esercito e della sicurezza e se la rottura si concretizzasse molte delle politiche israeliane potrebbero restare a secco.
Meglio correre ai ripari. Così ieri il premier confermato si è
presentato alla tv Msnbc per un’intervista nella quale rassicura
l’alleato: erano solo chiacchiere da campagna elettorale, la soluzione a
due Stati resta un faro anche per Israele. “Non voglio uno
Stato, ma una soluzione a due Stati sostenibile, ma per questo le
circostanze devono cambiare. Non si può imporre la pace. E in ogni caso,
se si vuole la pace, la leadership palestinese deve abbandonare il
patto con Hamas e impegnarsi in negoziati genuini con Israele per una
pace possibile”.
In tv Bibi ha ripetuto che uno Stato di Palestina potrà nascere se
demilitarizzato e se la leadership palestinese riconoscerà Israele come
Stato ebraico, una richiesta che l’Anp non a mai voluto accettare per le
conseguenze che provocherebbe sui palestinesi cittadini israeliani, il
20% della popolazione totale di Israele.
Insomma, cambia ben poco. La visione israeliana resta la
stessa e su simili basi appare davvero improbabile la ripresa di un
negoziato che sta fallendo da 20 anni. La vittoria di
Netanyahu, ora il leader più longevo di Israele, preoccupa Obama che non
si è neppure congratulato con Bibi per la rielezione. Il falco
israeliano tenta di correre ai ripari e annuncia in tv di aver parlato
al telefono con il segretario di Stato Kerry e di voler parlare con il
presidente al più presto per poter “lavorare insieme”.
Alla fine, i due si sono parlati: in serata, ieri, Obama ha
telefonato a Netanyahu e ha ripetuto quanto anticipato dal suo
portavoce. Il presidente Usa è frustrato dai tanti fallimenti registrati in Medio Oriente, dall’avanzata dell’Isis alla disintegrazione dell’Iraq, di cui mercoledì ha dato la colpa proprio all’invasione Usa. Sul processo di pace Israele-Palestina si è giocato molto. E lo vede crollare ogni giorno di più.
Che a pagarne il prezzo possa essere l’alleanza storica con Israele?
Difficile da credere. Obama è in netto calo di consensi, con un
Congresso contro, a maggioranza repubblicana. Il prossimo presidente potrebbe tornare ad essere un repubblicano, partito legato a doppio filo a Israele
e che il 3 marzo ha servito su un piatto d’argento a Netanyahu la
rielezione invitandolo a parlare al Congresso nonostante la contrarietà
della Casa Bianca.
Senza dimenticare la potentissima lobby ebraica statunitense, il cui denaro da decenni decide chi vince e chi perde le elezioni.
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